sabato 30 giugno 2018

Il gioco perfetto.

Sarebbe molto più conveniente fingere. Basterebbe stornare lo sguardo, azzerare l'udito, serrare la bocca. Insomma il gioco vecchio delle tre scimmie che, da piccola, mi impaurivano, quasi un presentimento del loro significato. Non ci riesco, non fa per me quel gioco.
Tutto questo cigolare di mandibole in esplosioni di parole e di sorrisi schiacciati sulla faccia dei politici europei è rivoltante, di un'ipocrisia sbandierata sulle nostre teste di gregari senza possibilità di appello. I popoli, le genti, gli elettori servono al consenso, rappresentano lo stigma del potere. E non se ne accorgono neanche, non più, partecipando, chi ansiosamente, chi furiosamente alla furfantesca pretesa di chi governa. La furfantesca pretesa di fare il bene dei propri cittadini che chi tiene il timone ha pasciuto d'odio, alimentando, foraggiandone le angosce, i dubbi, le deluse aspettative. Certo, il popolo non è innocente, no. Il popolo non ha giustificazioni - non vi sono giustificazioni alla morte della pietà collettiva, del senso dell'umano - il popolo s'è scelto chi lo rappresenta, quello che ne sa titillare, mai così bene -  se torno al passato, a ottant'anni fa e anche prima, vedo solo l'orrore di una nazione smarrita e schiacciata da scelte terribili e non voglio, non posso immaginarne un remake - gli istinti, le paure, le tensioni.
Con sofferenza prendo atto che l'Europa sbanda, tentenna disorientata. Con sofferenza prendo atto che non esistono parole misericordiose, né soprattutto gesti di misericordia e siamo tutti cristiani. Con sofferenza mi accorgo che anche ai bambini è negato l'amorevolezza di un segno. Allora tutto s'è risolto, tutto è concluso. Anche il nostro essere umani e sì adesso possiamo giocare alle tre scimmiette, è il gioco perfetto per noi.

David Teniers il Giovane (1610-1690) "Il banchetto delle scimmie"

venerdì 22 giugno 2018

Quel deserto sabbioso dentro di me.

Ho qualche difficoltà nell'affrontare questo rovello, questo mulinello di stoppie che rotola dentro di me. E sì in certi giorni avverto un deserto in me e fuori di me, una sterminata landa sabbiosa percorsa e percossa dal vento che strappa sussulti agli scarni cespugli che tentano di resistergli. Mi accorgo con sbalordimento di non capire più niente o pochissimo delle persone, di non riuscire più a giustificarne gli atteggiamenti, le parole. Un sottile minaccioso male mi insidia, insidia la mia consuetudine a perdonare, a scoprire, tra la gramigna, anche la buona erba. Mi è stato sempre istintivo questo modo di pormi con gli altri. Poi è scattato qualcosa. E so di cosa si tratta, ma per cautelare altri non posso dire di più.So che, però, qualcosa si è spezzato, e per sempre. Non guarderò mai più con fiducia agli altri, non gliela darò più come un dono senza attese. Chi commette il male, chi commette ingiustizie - a maggior ragione se chi si macchia di ingiustizia è chi detiene un potere -  non merita nessun perdono, né una pur minima parvenza di comprensione. Solo disprezzo.
Questo mio nuovo sentire che mi rende profondamente triste e inquieta, anche se rabbiosamente triste e inquieta, si decuplica e si alimenta al desco ben imbandito dei social: le ultime pietanza servite sono troppo appetitose. L'ormai annosa questione - perché non è di ieri o dell'altro ieri - dei migranti, si rimpingua quotidianamente di comunicati e proclami nazionali e internazionali a cui si aggiunge il codazzo dei facinorosi commentatori del web, in grandissima parte schierati con il pensiero dominante che detiene il potere politico. E a rimpolpare il menù, l'altra questione, meno annosa - ma anch'essa mica si scherza! comincia ad avere una certa età - è quella di Saviano.
Scorta sì o scorta no. Chi legge i miei modesti post, i miei umili pensieri in proposito, conosce bene le mie posizioni, da sempre. Io sto con il diritto alla vita, in tutti e due i casi, in tutte e due le questioni. E sono aperta alla discussione, al confronto, alla necessità anche di ricercare delle soluzioni che possano essere accettate da tutti senza però che ci siano martiri o vittime. Imprescindibile il diritto alla vita, per chiunque, a una vita che non sia privazione di qualsiasi libertà giusta e umana.
Ma non è così che ci si rapporta nei social, no. In questi, ormai annosi anch'essi, campi di battaglia, si assiste a una recidivante volontà di sopprimere l'altro, il nemico. Così c'è chi si insinua e offende apertamente; chi si insinua ed è insinuante nel voler convincere dell'inconvincibile; chi urla su fondi policromi e minaccia. Un florilegio di eleganza e di soavità a cui è quasi impossibile sottrarsi: la pazienza se n'è andata, è fuggita via assieme alla civiltà e all'umanità.
C'è ancora qualcuno, a dire il vero, che se ne sta impietrito, arroccato alle sue certezze e lo invidio, come se la storia gli scivolasse addosso, come se non gli toccasse di vivere in questa società: e resiste serafico e smarrito nelle pagine di un qualche bel libro.
Ci sono poi quelli che si allineano, ma piano piano. Pianissimo, cercano di non fare rumore, se potessero si farebbero sottili come capelli d'angelo o si appiattirebbero nell'ombra, sempre più allineati, come tante stupite Pantere Rosa. In agguato, pronte poi al momento giusto a venire fuori dalle truppe.
Ma quelli (quella?) che davvero mi divertono - e lo dico sul serio e scusate il gioco di parole -  sono i "saltellanti" ovverosia coloro che, con grazia sbarazzina, saltano da un post pro a un altro contro, commentando in calce sempre col tono pertinente al post. Insomma è sempre utile dare un colpetto al cerchio e uno, magari più forte, alla botte.
E io rimango di stucco, mi incavolo, rido, ridacchio, mi intristisco, posto fiori ogni tanto, parlo di giorni normali, di cose che accadono a tutti noi. Per non sentire, per non ascoltare, per non leggere. E intanto cresce quel deserto, prende sempre più spazio e il vento soffia impetuoso e caldo dentro di me.

giovedì 14 giugno 2018

Chiacchiere e distintivo.

Quello che mi rende furiosamente triste è il divincolarsi della coscienza dei molti. Un esercizio acrobatico di eccelso livello, una gareggiare degno di atleti medaglie d'oro, un districarsi nella giungla della sintassi filosofica, sociopoliticheggiante disperatamente arduo, alla ricerca del distintivo, del meritato consenso. E questo avviene non esclusivamente da parte dei politici che ci governano - è il loro sporco porco mestiere - ma da parte di chi sente come un diritto e un dovere di esplicitare il proprio sagace bagaglio culturale e politico e sociale e intellettuale, E così ci inondano di opinioni, di teorie tratte da illustri studi di eccellentissimi studiosi ed è tutto un bel fiorire estivo di statistiche, di dati, di percentuali. Una guerra con le tastiere come trombette. Una guerra combattuta da un microfono, scagliandosi missili che hanno il solo scopo di incendiare i cervelli delle masse.  Le masse che si infoltiscono sempre più, si ingrossano, si allineano. Perché il nemico è un obiettivo facile e anche conveniente da colpire. "Siamo onesti, via! Ma a chi piacciono questi disgraziati portatori di caos e di disordini?" In fondo è stata questa la domanda rivolta alle masse. E la reazione dal chiuso dei propri agi è stata quasi universale. Ancora una volta il timore che i muri delle nostre case possano essere sfiorati, intaccati da chi ci è straniero, ha vinto. E tornano così parole come confini, limiti, spazi, territori, regioni, patria. Patria sì, perché patria è quella piccola fetta di terra che quotidianamente calpesti. Che è anche vero, ma è anche vero il contrario. Se quella piccola fetta di terra non ti dà certezze, non ti offre la vita, il futuro. Se quella stessa vita che hai, te la toglie, a te e ai tuoi figli.
Ma non importa, non sono cose che ci riguardano. In fin dei conti tutto questo agitarsi, questo accusarsi reciprocamente ha tutta l'aria di essere "solo chiacchiere e distintivo". Con unna contraddizione fondamentale rispetto al film: in quel bellissimo film, il riferimento era all'eroe buono; e invece qui di eroi buoni non ce n'è neanche uno sputo. 
Continuiamo a vivere nei nostri confini, nelle nostre case, chiediamo protezione, armiamoci di tappi per le orecchie, spegniamo gli occhi e viviamo come sappiamo fare, nell'unico modo che ci è rimasto. Disumanamente.
Agli altri ci penserà il mare, il Mare Monstrum. E anche gli illuminati, eccelsi politici che ci governano, noi masse del continente europeo di oggi.

venerdì 8 giugno 2018

Un cuore che sa.

Giorni senza riti particolari, senza manovre da inventare, senza emozioni da afferrare. Giorni di riflessivo silenzio e di scrittura. Di revisione, di rivisitazioni. Senza letture per non essere fuorviata, perché gli amati libri, quando sono amati, parlano per noi, in questo caso parlerebbero per me.
Fuori c'è un mondo irriconoscibile, non sono in grado di comprenderlo, forse non  voglio neanche comprendere e sapere. So quello che la vita m'ha dato e mi basta, mi consolano il carico dei miei errori e il cesto fiorito delle mie allegrie. Che poi sono i miei figli, i ragazzi e i bambini. Rifuggo dagli altri, scelgo, in questi giorni, la solitudine che non mi è nuova, una fedele amica ritrovata e che bella faccia luminosa che ha. Ha quella chiarità nitida di certe albe primaverili e un identico tacere.
Non ricerco la compagnia, mi circondo della necessaria umanità. I vivi come me che hanno molto vissuto non possiedono più alcun incanto, solo una stanca e rabbiosa accettazione di quello che si è diventati, senza averne piacere. Qualche eccezione sì, qualche sorriso di complicità.
Scrivo sotto dettatura. Mi è stato chiesto di raccontare di una famiglia, la mia, mi è stato chiesto con forza, quasi fosse un obbligo e ho scritto e scrivo.
Erano dentro tutti, erano in me e non li ascoltavo più e oggi parlano e c'è un rumore continuo, inafferrabile da altri, ci sono luci e oscurità che si mescolano in un incessante chiaroscuro. Scrivo, dialogo con le mie donne, mi diverto, piango.

Di notte, nel sibilo degli alberi afferrati dal vento, arrivano. E c'è l'alta figura di nonna e la mamma normanna che si nascondono nelle stanze buie della casa. Quella casa sconosciuta e spaventosa che, da anni, mi intrappola nei sogni.
Quella casa che è piena di vento e di onde furiose, ritmiche come i battiti accelerati del mio cuore. Che sa di non aver fatto abbastanza.


Vilhelm Hammershøi (1864 - 1916)

venerdì 1 giugno 2018

Un senso di solitudine.

Oggi si è concluso un lungo trimestre di attese. La Nazione ha un Governo. E non dico altro, non mi voglio invischiare in analisi e aspettative, giudizi, esegesi di forma (però qualcosina sulla postura elegante di Salvini ... e va bene! meglio tacere) e di sostanza. Ce ne saranno tantissime illuminanti e io non mi cimento con chi ha più strumenti di me. Certo, chi mi conosce, comprenderà bene la mia disillusa e attonita reazione, ma durano da un pezzo questa disillusione e questo sbigottimento, non sono una novità.
Tutt'al più si aggiungono questi due sentimenti, si sovrappongono, si sommano ad altri, più intimi e personali. Da qui il senso di una sconfinata solitudine, di una lacerazione tra me e la realtà che mi circonda e, in alcuni casi, tra me e le persone. Come se avessi subìto uno scollamento aggressivo, uno strappo furioso delle mie certezze.
E al loro posto si fossero insediati neonati stati d'animo. Di perdita, di smarrimento, di sconfitta anche.
Per anni ho creduto fermamente nella bellezza forte, tenace dell'essere se stessi, del non lasciarsi spostare dal proprio percorso, dalla fedeltà a quello che si è, che si è stati, per intensa convinzione, per educazione, per cultura. Un radicamento al territorio degli affetti, degli studi compiuti, delle esperienze lavorative, sociali, un radicamento dovuto anche ai libri letti e amati. E invece, no. Mi rendo conto che non è così, non per tutti. Ci si lascia abbagliare dal nuovo, ci si lascia avviluppare dai sorrisi e dai gesti, dalla bonomia che nasconde il cuore d'acciaio ben temprato. Ci si lascia abbindolare dalla gentilezza interessata e non ce ne accorgiamo se non quando non siamo, anche noi, diventati simili, perfettamente simili a chi di quei travestimenti ci è stato falso mentore. Perché, a quel punto non ci piacerà più quello che eravamo e non ci piaceranno gli altri, quelli che sono diversi da noi. Un saccheggio dell'anima e del carattere sottile, senza grandi sofferenze, operato con chirurgica precisione. Il dolore e l'amarezza colgono di sorpresa, in un ricordo, in un gesto improvviso, in un gesto non più usuale. Ma è tardi, il cambiamento è avvenuto. E, in fondo, se dovesse capitare a chi mi è caro, spero che non se ne accorga mai. Rimpianti e rimorsi sarebbero come sale su cicatrici riaperte.

Arturo Nathan "Il passaggio del veliero"  1928

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