venerdì 8 giugno 2018

Un cuore che sa.

Giorni senza riti particolari, senza manovre da inventare, senza emozioni da afferrare. Giorni di riflessivo silenzio e di scrittura. Di revisione, di rivisitazioni. Senza letture per non essere fuorviata, perché gli amati libri, quando sono amati, parlano per noi, in questo caso parlerebbero per me.
Fuori c'è un mondo irriconoscibile, non sono in grado di comprenderlo, forse non  voglio neanche comprendere e sapere. So quello che la vita m'ha dato e mi basta, mi consolano il carico dei miei errori e il cesto fiorito delle mie allegrie. Che poi sono i miei figli, i ragazzi e i bambini. Rifuggo dagli altri, scelgo, in questi giorni, la solitudine che non mi è nuova, una fedele amica ritrovata e che bella faccia luminosa che ha. Ha quella chiarità nitida di certe albe primaverili e un identico tacere.
Non ricerco la compagnia, mi circondo della necessaria umanità. I vivi come me che hanno molto vissuto non possiedono più alcun incanto, solo una stanca e rabbiosa accettazione di quello che si è diventati, senza averne piacere. Qualche eccezione sì, qualche sorriso di complicità.
Scrivo sotto dettatura. Mi è stato chiesto di raccontare di una famiglia, la mia, mi è stato chiesto con forza, quasi fosse un obbligo e ho scritto e scrivo.
Erano dentro tutti, erano in me e non li ascoltavo più e oggi parlano e c'è un rumore continuo, inafferrabile da altri, ci sono luci e oscurità che si mescolano in un incessante chiaroscuro. Scrivo, dialogo con le mie donne, mi diverto, piango.

Di notte, nel sibilo degli alberi afferrati dal vento, arrivano. E c'è l'alta figura di nonna e la mamma normanna che si nascondono nelle stanze buie della casa. Quella casa sconosciuta e spaventosa che, da anni, mi intrappola nei sogni.
Quella casa che è piena di vento e di onde furiose, ritmiche come i battiti accelerati del mio cuore. Che sa di non aver fatto abbastanza.


Vilhelm Hammershøi (1864 - 1916)

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