lunedì 27 marzo 2017

Niente assedio, anche se è primavera.

Ho proprio voglia di parlare di cortigiani. E anche di corteggiatori che sono altro, ma la radice da cui fioriscono è simile. E perché ne ho voglia? Ma scusate, non vi siete accorti che è primavera? Non vi siete accorti che nel cielo terso sfrecciano, accanto ai passeri e alle prime rondini, gli ormoni amorosi di noi umani?
C'è tutto un germogliare di commenti, un bisbigliare sommesso di sentimenti, un plaudire trionfale, un tremolare di cuori e di labbra, un sospirare estatico: si avverte nell'aria, si legge  nelle pagine di quel diario collettivo che è Facebook. E non è forse magnifico, tutto questo? Non è forse preferibile alle ingannevoli parole dei potenti, ai miasmi della corruzione e della violenza che ci accerchiano? Certamente, mi rispondo. Ma, c'è un ma.
Il corteggiamento, inteso come espressione di un sentimento di profonda simpatia, di affetto, di interesse, se non addirittura di conclamato amore, è plausibile e anche accettabile da parte di chi lo riceve.  Quando però i toni e le parole di questi sentimenti, esposti al pubblico, sono confinati nel recinto del pudore, di una timida attesa; oppure  quando i toni sono venati da una giocosa autoironia, da quel prendersi in giro, ridere di sé, che tanto benefica allegria apporta nelle schermaglie sentimentali. Quello che appesantisce e stronca la leggerezza di un corteggiamento è, invece, l'enfasi, l'eccesso di retorica; insomma le parole sublimi, le vorticose giostre verbali, i reiterati complimenti, gli astrusi esercizi stilistici. Una congestionata congerie che finisce col mettere sotto assedio l'oggetto di tante attenzioni. Il passo da qui al diventare cortigiani è breve, il rischio c'è.  La tanto citata captatio benevolentiae è dietro l'angolo, con tutte le implicazioni, indesiderate, che essa spesso comporta.
Che fare allora? Secondo me, secondo la mia  esperienza, basterebbe affidarsi al vecchio buon senso: poche parole, niente panegirici, zero iperboli, una modica quantità di elogi e smancerie (solitamente poco tollerate) e, soprattutto, divieto assoluto di ipocrisia che è la bestia divoratrice dei rapporti tra esseri umani. La sincerità, l'onestà di mostrarsi così come si è, è l'arma più possente per vincere le nostre battaglie, in amore, nell'amicizia, nella vita.

PuritàDomenico Gatti, 1915-16

sabato 25 marzo 2017

Uno sterminato lager.

Sono stati giorni convulsi, la quotidianità spezzettata in tante schegge incontrollabili. Alle consuete fatiche, allo spossante cammino, doverosamente incessante per non arrendersi, si sono sovrapposte e intrecciate fittamente le spinte ansiogene del reiterarsi crudele del terrore a Londra. Strano e insieme molto umano il sentire e il reagire di noi tutti, nel corso dei mesi. La calma apparente rassicura, ci consente di dimenticare, di riporre nel recesso più oscuro della nostra mente ciò che ci impedirebbe, altrimenti, di condurre un'esistenza normale. L'illusione che  il peggio sia fuori dalle nostre vite, solo perché non ci tocca da vicino, solo perché non ne vediamo, per un lasso di tempo, le devastanti, tragiche conseguenze sui nostri schermi televisivi. Poi arrivano le immagini, magari nell'intimità di una cena familiare, e tutto si capovolge. Il mondo entra con furia nelle nostre case e sconvolge il nostro tempo, distrugge l'apparente calma. E, ancora una volta, ci rendiamo conto che ci siamo dentro a quel mondo, catapultati senza opzione di scelta nel vortice nero del terrore.
Ma è questo quello che vogliono quei miserabili sanguinari, è questo terrore infiltratosi nelle nostre case, nelle nostre menti come un tarlo demolitore, è questo insidioso malessere, la loro guerra. Vogliono vincerci, annientando la nostra capacità di vivere le nostre vite.
L'altra sera ho visto un reportage su Mossul, sui suoi superstiti abitanti: larve di uomini, un anziano uomo ricoperto di stracci che urlava la rabbia e lo strazio di una città depredata, violentata, uccisa. I bambini gli stavano intorno con i loro occhi incerti tra il riso e la paura, i bambini che hanno visto la loro innocente sete di giochi, la loro giusta fame di cibo e di sogni, spazzate via. Ho ascoltato dopo le riflessioni di qualche politico, di qualche giornalista, ma non mi arrivavano, erano suoni erano sillabe dentro all'involucro opalescente.
Mossul e Londra. Mossul e noi . Se solo capissimo che  siamo, tutti, confinati in questo sterminato lager del terrore.

martedì 21 marzo 2017

L'ultimo giorno.

Primavera entra nelle stanze, s'affaccia sugli alberi e negli orti, rasserena i giardini. E ingaggia la finale lotta contro l'inverno che ansima e soffia e sbuffa, ma sa che il momento è giunto, deve lasciare il posto a questa bella giovinetta ammaliatrice foriera di gemme e di procelle ormonali.
Ma oggi è anche la giornata mondiale della Poesia e i Greci le davano volto e nome tramite le Muse protettrici, giovani donne avvolte in svolazzanti e leggere vesti chiare  fluttuanti nei dipinti così come l'Arte le ha mostrate a noi. E pensando a queste immagini di leggiadra aerea bellezza, e pensando anche all'ultimo giorno della fredda stagione e al primo che s'avvicenda della lieta, ho scelto tra le cento e cento poesie che più amo, questa.


 L’ultimo giorno 


La giornata era fosca. Nessuno prendeva decisioni. 
Soffiava un vento lieve: «Non è greco, è scirocco» disse qualcuno. 
Qualche cipresso magro inchiodato al declivio e il mare grigio, 
con lagune di luce, laggiù. 
I soldati presentavano le armi quando venne una pioggia fina fina. 
«Non è greco, è scirocco»: l’unica decisione che si udì. 
Pure, lo sapevamo che l’indomani non avremmo avuto 
più nulla, né la donna che beve al nostro fianco il sonno, 
né la memoria d’essere stati uomini, una volta, 
più nulla, l’indomani. 

«Questo vento dà l’idea di primavera» mi diceva l’amica 
camminandomi a fianco e guardando lontano 
«di quella primavera calò improvvisa 
d’inverno presso il mare chiuso. 
Tanto inattesa. Tanti anni passati. Come 
morremo?» 

Girava una marcia funebre nella pioggia sottile. 
Come muore un uomo? Strano, nessuno ci ha pensato. 
E per chi ci ha pensato è stata come una reminiscenza 
di certe vecchie cronache 
del tempo dei crociati o della naumachia di Salamina. 

Pure la morte è una cosa che succede: come muore un uomo? 
Pure la morte ognuno la guadagna, la sua morte che 
non è di nessun altro: 
questo gioco è la vita. 
Declinava la luce sulla giornata fosca. Nessuno 
prendeva decisioni. 
E l’indomani non avremmo avuto più nulla: una totale 
resa; neppure più le nostre mani; 
le nostre donne schiave di stranieri alle fontane 
e i nostri figli nelle latomie. 
Camminandomi a fianco cantava l’amica una canzone mutilata: 
«La primavera, e poi l’estate, schiavi…» 
Venivano alla mente vecchi maestri che 
ci lasciarono orfani. 
Una coppia passò chiacchierando: 
«La sera m’ha stufato, andiamo a casa, 
andiamo a casa a accendere la luce»

Atene, febbraio 1939
Giorgos Seferis

Sandro Botticelli "La Primavera" 1477-1482
 

domenica 19 marzo 2017

Oggi, no.

Potrei scrivere di mio padre, oggi si festeggia la paternità, ma non lo faccio. Non scriverò di lui perché c'è sempre una piccola parte di lui che mi segue, mi pedina instancabile. Il mio carattere, qualcosa almeno, la capacità di accettare la vita così come si presenta, anche con una risata e un guizzo d'ironia. Sì, non voglio parlarne perché so di parlargli spesso e mi piacerebbe averne un segno.
E poi cosa potrei dirgli di nuovo, di diverso? Forse non gli piacerebbe più la donna che sono oggi, più smaliziata, più disillusa, più delusa. Non gli piacerebbe la mia lucidità, lui mi voleva tenera e appassionata; non gli piacerebbe la mia capacità di analizzare con dolorosa consapevolezza le dinamiche e le tensioni accumulate, negli anni, nel nostro nucleo familiare. Lui che possedeva quella fierezza antica di patriarca, che ci voleva uniti come moschettieri del re di Francia; lui che non ammetteva le feste comandate, senza le rumorose riunioni conviviali e non voleva vedere volti annoiati e non voleva sentire discussioni.
Ma il fermentare di diversità, il ribollire del mosto nel tino c'era già allora. Forse fingeva di non sentirne l'aspro odore.
Credo che non ci sia niente di più sofferto per un padre che accorgersi delle sconfitte mani deluse di un figlio. Quando queste si alzano in un gesto di resa. E io mi sono arresa. Mi sono arresa al cambiamento, all'età che incartapecorisce pelle e cuore; mi sono arresa, docilmente dopo tanta amoroso trasporto, all'indifferente sorriso, al distratto ascolto, al gioco delle emozioni condivise, che si è sfilacciato, Mi sono, docilmente, arresa al distacco.
Non avrei voluto parlare di mio padre, ma credo di averlo fatto. Ancora lui, in realtà, ancora lui, vorrei che fosse il mio, il nostro baricentro.

Paul Cézanne "Il padre"  1866

martedì 14 marzo 2017

Sorridendo a me e al mondo.

C'è una parte, non trascurabile e non trascurata, di me che mi spinge a essere dissacrante, prosaica, forse cinica. Non riesco a liberarmi di un'ironia, appresa in giovanissima età, che spesso viene mal tollerata da alcuni. A questa però si accompagna da sempre la percezione irriverente di me stessa, un'autoironia leggera, un giocare con me stessa, con quel riflesso leonardescamente ricco di chiaroscuri che è l'immagine che ognuno di noi ha della propria personalità e della propria vita. Non posso fare a meno del sorriso liberatorio, del volteggio allegro, quando i toni di una discussione si avvicinano, pericolosamente, all'enfasi, a quella retorica dei sentimenti che toglie, non di rado, veridicità e peso e virtù alle nostre parole e alle nostre azioni.
Da sempre apprezzo chi irride i potenti, lo sberleffo a chi detiene lo scettro del comando, ritengo che sia la migliore arma che gli inermi, per stato e per scelta,, abbiamo a disposizione.
Chi sa ridere di sé e degli altri - quando gli altri meritano la risata che stronca e non l'empatia di una condivisa commozione - affronta, forse, con meno fatica il peso dell'essere abitante di questo folle pianeta. Di questa società deludente e troppe volte iniqua, che non fa sconti alla massiccia e crescente massa di poveri; che non premia il valore e il merito dei nostri giovani cuori, di ragazze e ragazzi, lasciati sulla banchina di una fantastica stazione a guardare i treni che partono e sfrecciano senza di loro.Perché spesso non hanno neanche più la voglia di afferrarlo quel treno, o la possibilità materiale in soldi e tempo.
Parlando dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze, non sorrido alla vita, non sorrido dei potenti: no, in questo caso. Li fisso con occhio freddo e cattivo e attento, attento alle loro mosse, ai loro intrighi, alle loro parole bugiarde e se un'ombra di riso mi stira le labbra è un'ombra di disprezzo e di attesa. Prima o poi perderanno il treno anche loro.
Ma non voglio, oggi, affliggermi, che vadano in malora. Oggi voglio continuare a sorridere della vita, delle mie delusioni che, in fondo ho anche io voluto; delle mie scelte, alcune sbagliate e altre no, tutte compiute scaraventandomi dentro  con voluttuosa incoscienza; delle mie attese e speranze, spesso rivelatesi chimeriche lune ultragalattiche; dei miei rimpianti anche, sciolti in fiumi di lacrimosi versi. Oggi voglio sorridere di me, della mia immagine, di quella donna non più giovane che strizza l'occhio, ironicamente  distaccata da sé e dal mondo che le gira intorno. Ironicamente e amorosamente sorridendo, continuo a vivere.

E, ovviamente, non potevo  rimettermi nelle mani di alcuno, se non in quelle di Leonardo che, meglio di ogni altro, seppe cogliere il mistero del sorriso.

Leonardo da Vinci "La Gioconda"  1495

mercoledì 8 marzo 2017

Se vi diranno.

Alle mie ragazze. Alle giovani donne che camminano per le strade sconnesse della Terra, inciampando e cadendo, Alle giovani donne che camminano per i viali levigati e alberati. Alle bambine che amano correre nel sole e nella sabbia, Alle bambine che giocano al riparo. E a quelle come me, che siamo state come loro.
Se vi diranno

Se vi diranno ancora una volta
se vi diranno che siete nate da una costola
dell'Uomo
ridete con le vostre bocche di tenero sapore
perché allora l'uomo è povero di forza
il suo torace è una veste sdrucita.
Se vi diranno che avete tradito il patto
e scelto la mela
ridete ancora con le vostre bocche di miele dolci
perché eravate schiave e vi siete sciolte.

Se vi ingiurieranno, vi batteranno
vi uccideranno
allora ricoprite le vostre mani e braccia
con spine e rose di tagliente acciaio.

Se vi diranno che siete belle e forti
se vi guarderanno con occhi limpidi
se vi offriranno da bere l'acqua tersa
se spartiranno con voi succosi fichi
e odoroso pane e tutti, tutti i frutti della terra
allora siate compagne, siate amiche
siate amanti amorevoli
siate le donne che volete essere.

Gustav Klimt "Adamo ed Eva (Incompiuto)  1917

lunedì 6 marzo 2017

La perdita dell'innocenza.

Guardo la giovanissima ragazza, la osservo. Una macchia sfocata il volto che conosco tanto a fondo da poterlo disegnare, e in altri tempo lo avrei fatto; quei tratti, impressi nella mia mente, ancora legati alle rotondità dolci dell'infanzia, tutto liscio e morbido, crema di latte spruzzata di miele e gli occhi seri seminascosti dall'onda selvaggia dei capelli. Poche parole ci siamo dette, ma è lei, timida e schiva e umorosa d'affetto. Un affetto saldo che traspare appena da un breve sorriso. Bella, Dio se è bella. E incerta. Ancora incerta, ancora aggrappata all'innocenza, restia e testarda, non vuole allontanarsene.
Si sovrappone a lei un'altra adolescente, altrettanto timida e ritrosa, svagata anche, e sono io, alla sua età. Una testa infiammata dalle molte letture, un cuore innamorato degli altri, la sensazione di accogliere il dolore del mondo in me e di poterlo sconfiggere, in qualche modo. Era l'età dell'innocenza, lo si è tutti, innocenti, in un periodo della vita, seppur breve. 
L'età dell'innocenza, che non è appannaggio esclusivo dei più piccoli, ma continua a scorrere come un fiume sotterraneo, dentro di noi, alimentando dubbi, paure, incertezze. Ma anche sogni e speranze. Età di fuggevoli illusioni, di notturni viaggi oltre gli spazi claustrofobici del giorno appena trascorso. L'età degli improvvisi scrosci di lacrime, come fulminei temporali estivi e di allegrie sgangherate e scoppiettanti. In un'altalenante contraddittorietà di comportamenti, burrasche e placidi sereni in perenne rotazione. E questa età, così vertiginosamente colma di sentire, si allunga, protraendosi negli anni per alcuni, io tra questi.
Il dubbio non cessa, la consapevolezza di non essere il centro del mondo e l'attesa, allo stesso tempo paziente e appassionata, del cambiamento, continua incessante a rendere il confronto con gli altri, più doloroso, più difficile. Ma è una scelta, involontaria forse, ma è una scelta compiuta a suo tempo. Ci si accorge con stupore prima e con sofferta rassegnazione dopo, di essere diversi, sovente di non essere accolti come vorremmo; ci si sente sminuiti quando si coglie, e accade, lo sguardo sarcastico o il risolino stirato come filo d'acciaio, alle nostre parole e azioni d'ingenua sognatrice, di eterna, inveterata adolescente. Si è soli, accade spesso anche questo, si percepisce il fastidio della diversità non accettata, perché chi è diverso mette in crisi sempre, fa vacillare ogni solida certezza acquisita, ne mette in dubbio il valore.
Un cammino per gambe buone, lo si potrebbe definire, un'ascesa interminabile. Ma ne vale la pena, ragazza mia, mia giovanissima e bellissima donna in itinere. Avrai il tuo fardello di dubbi, di incomprensioni, di sofferenze e delusioni da portarti appresso, ma non avrai rinunciato a quell'età, non avrai tradito, non avrai sconfitto l'età dell'innocenza.
Più di una volta mi è stato detto a proposito del cambiamento, non solo fisico, anzi, che avviene in molti uomini e in molte donne, con l'approssimarsi della maturità, più volte mi è stato detto: "Eh, mia cara, invecchiando, si diventa più cattivi". E non c'era rammarico nel tono; al contrario c'era un'arrogante compiacimento. Come se il cerchio si stesse chiudendo nella giusta maniera, senza sbavature.
No, per favore, no. Che non si chiuda il cerchio, che resti aperto, arioso, liberamente accogliente, generosamente innocente.
E a queste persone che si sono volentieri arrese - per calcolo, per superficialità, per aridità, per denaro e potere presunto, o anche semplicemente per stanchezza - io e la giovane ragazza e qualche altro, i miei amori di sicuro, diciamo che preferiremo, sempre, l'innocenza e lotteremo contro la sua perdita.

Joshua Reynolds "The Age of Innocence"  1785 ca.

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