martedì 26 luglio 2016

Ed è così che faccio io.

Quando si vive con l'assenza la vita assume altri ritmi e ha altre   esigenze. Anche la città appare diversa e i colori e i suoni sono diversi. C'è una percezione offuscata di ogni cosa, come se una nebbiolina impalpabile si posasse sugli alberi e si spalmasse nell'azzurro del cielo, rendendo i suoni lontani, meno fragorosi, meno vitali. Le ore si dilatano, prendono la misura dalle telefonate e dalle attese; e i pensieri vi ruzzolano dentro, in queste ore lunghe come le ombre al tramonto estivo, si accapigliano, si mettono a correre, bambini ridenti e giochi vicino al mare. Si nascondono e li cerchi, i pensieri bambini e fai la conta, sperando di riacciuffarli. Così scorrono i giorni e i mesi e l'assenza non è meno faticosa da sostenere, è solo ingentilita dai ricordi.
L'assenza di chi molto amiamo ci dà altre esigenze, meno schiaccianti, meno pressanti. Ogni gesto, ogni azione è inconsistente, soffice, priva di peso. Vaghiamo nelle giornate avvolte l'una sull'altra senza fretta e senza particolare cura, la cura vuole l'oggetto del nostro amore e non c'è, è via.
Io vivo la mia assente in questo modo, senza pretese, senza volere altro se non i miei pensieri e le mie parole per lei. E ogni attimo che scorre è un attimo che mi avvicina, nient'altro. Per questo sorrido a chi mi invita a vivere, a essere attiva, a prendermi il tempo che mi spetta. Ma io non voglio tempo per me, non per me sola. Io voglio dividere il mio tempo con la mia assenza: ed è quello che faccio.
Senza tristezze, senza rinunce, ma gentilmente, amorevolmente appagata.


Pablo Picasso "La soupe"  -  1902

mercoledì 20 luglio 2016

Forse, col cuore stretto.

Diffido delle persone che, universalmente - e per universo intendo il circoscritto spazio in cui si muovono e agiscono - sono ritenute buone. La bontà d'animo, qualità sempre più rara da riscontrare, è indissolubilmente legata alla propensione umana al perdono, o più semplicemente alla comprensione dei difettosi limiti di ogni individuo. E chi non vede e quindi non comprende questi limiti, ha difficoltà nell'affrontare con se stesso e con gli altri, la questione della bontà, della caritatevole qualità che tutti vorremmo sperimentare e di cui, in tanti, ci sentiamo depositari. Diffido dunque di chi elargisce lodi sperticate, di chi manifesta empiti d'affetto traboccanti, senza guardare, senza vedere meglio, chi è il degno bersaglio di tali benevolenze. Senza vederne gli angusti vicoli, i tortuosi sentieri dell'anima, le duplicità caratteriali; fingendo di non accorgersi che ci sono le ombre che oscurano la luce e sono tante. Chi crede di amare così è l'eterno cieco, colui che si è tolto gli occhi o li ha coperti per non vedere e prosegue a tentoni, con abbracci e struggimenti, con parole di gloriose lodi, gesti enfatici e giaculatorie che fanno bene a chi li compie e a chi li snocciola piuttosto che a chi li riceve.
L'affetto concreto, bello pieno di polpa e succo come un frutto estivo è capacità di accoglienza, ma anche di giudizio. Non servono a nulla le sperticate lodi e l'amour fou se non sono sostenuti dalla capacità di discernere, di setacciare ciò che è buono da ciò che lo è meno. Non si può dire bravo! a chi, anche se è la "luce" dei nostri occhi, compie un'azione ingiusta, immotivata, a chi taglia con le parole il cuore di altri. L'amore concreto è ricco, come un frutto maturo, di semi e li sparge, li sotterra perché germoglino piante sane e forti. Quanto vale, in certi frangenti, un rifiuto, un rimprovero, un solo sguardo di riprovazione ferma, non valgono cascate e cateratte di abbracci e di baci e di parole dolci. Noi ci sentiremo forse un poco male, forse lo faremo con il cuore stretto, ma sicuramente daremo un contributo amorevole nell'aiutare il nostro amato "lupo" a togliersi di dosso il pelo e il vizio.



Roy Lichtenstein - Kiss V   1962

domenica 17 luglio 2016

La Grande Menzogna.

Convivere con il dolore e con l'attesa del dolore è il più terribile dei destini. Eppure, pare che ci sia toccato in sorte, in questi ultimi anni. La morte si affaccia sempre più spesso nelle nostre case, è diventata una presenza, temuta e inesorabile, e a niente valgono le nostre parole di desolato sconforto, di pietà. O, nel peggiore dei casi, di indifferenza. L'unica alternativa che abbiamo è quella di non perderci, di non permettere che ci travolga nella spirale dell'odio e della paura, banalità si direbbe. Ma l'unica arma che, ciascuno di noi, possiede, è la ragione, il pensiero, la coscienza.  I nostri baluardi contro il terrore e la follia.
Per questo motivo io laica piena di dubbi, non tollero più che si parli di Dio quando avvengono fatti e tragedie come quelli appena accaduti. Ho letto commenti che dicevano "Ma che Dio hanno questi criminali?" oppure "Come può Dio permettere tutto questo?" Come se ci si potesse confrontare con qualcuno che sta al potere e urlargli in faccia tutto il nostro disprezzo, tutta la nostra rabbia.  E mi arrabbio io allora perché questo monosillabo ha perduto ogni senso sacrale, è divenuto l'alfiere di ogni empietà commessa. O di ogni alibi, o di ogni vendetta. Quando si capirà che le ragioni del male sono in noi, nella nostra, spesso, scellerata volontà di compierlo, nelle nostre volontarie scelte di vita e di esercizio di essa, allora potremo vedere meglio, la benda scivolerà via dai nostri occhi e la realtà delle cose ci sarà più comprensibile. Per questo non ho gioito del ritorno (?) di Erdogan al potere in Turchia. Uno Stato che rinuncia, che schiaccia la propria ambizione alla laicità non è uno stato di diritti e di libertà. E so, per quanto umilissima conoscitrice della dottrina religiosa, che non vi è Dio, non vi è alcun Dio che voglia centinaia di morti, se non migliaia in questi anni, uccisi, calpestati, in suo nome. Questa è la grande menzogna alla quale vogliono che le masse, sofferenti e disprezzate ed escluse, si pieghino e si prostrino. Questa è la Grande Menzogna: il Dio che non è Dio.
Se c'è, e spero fortemente che ci sia, è altrove e non ha sembianze di morte.


Michelangelo Merisi da Caravaggio "I bari"  1594

giovedì 14 luglio 2016

E per oggi mi basta.

Due fatti: Uno tragico, terribile, incomprensibile. Lo scontro di due treni  in Puglia che ha tolto la vita a ignari studenti, lavoratori, turisti. Un fatto di per sé tragico e terribile, a cui si aggiunge l'incredulità rabbiosa dei sopravvissuti, dei parenti, di noi tutti. Perché non è possibile che accadano, oggi che ci facciamo vanto di tecnologie sofisticate, fatti come questo. Due treni e un unico binario, nella campagna assolata del sud, due treni col loro carico di vite, di speranze, di futuro, incastrati nel groviglio delle lamiere contorte, simbolo perenne dell'incuria, della negligente disonestà di chi avrebbe dovuto sapere e provvedere.  E ora le vittime aspettano le parole di cordoglio dovute loro, sempre le stesse parole quando non si ha il coraggio di gridare basta. Basta all'indifferente operosità dei politici e dei trafficanti al potere, basta alle loro manovre per spartirsi appalti e denari, basta alla lentezza mortale delle scelte. Basta a questa coscienza collettiva lenta, assopita nell'abitudine a tutto, anche al malaffare, anche alla morte di innocenti.
L'altro fatto riguarda la scomparsa di un boss mafioso, Bernardo Provenzano, ed è un fatto che lascia indifferenti. Nessuna parola da spendere, nessun ricordo, nel mio post su Facebook ho scritto: Bene. E lo penso, la morte in questo caso è un bene. Per tutto il male che è stato commesso, per tutti le vittime di mafia, per il veleno con cui ha intossicato per anni e anni la mia terra. E non voglio dire altro perché non merita altro.
Due fatti: E uno mi ha fatto piangere, ci ha fatto piangere e dopo infuriare, con quella collera impietosa verso chi avrebbe potuto fermare la morte e non lo ha fatto. Ci aspettiamo che paghino, lo esigiamo.
Poi un ricordo spezza il sipario nero di questi giorni ed è una foto di Natalia Ginzburg, di cui ricorre il centenario della nascita. E sorrido e mi acquieto e penso a quei suoi libri letti da ragazza che tanto mi hanno dato e ringrazio la vita perché, a volte, è capace di gesti gentili, di bellezza. Penso alla scrittrice, alla donna che è stata e mi si allarga il cuore. C'erano anni buoni, c'erano bei fatti. C'erano donne come lei. E per oggi mi basta.


Claude Monet  "Il levarsi del sole"  1872

giovedì 7 luglio 2016

Il nome delle cose.

Non avrei voluto scrivere nulla. Sono stanca di scrivere, è la verità. Sono stanchissima delle mie piccole, insignificanti riflessioni che non approdano a nient'altro se non a colmare un momentaneo senso di distacco dalla realtà che vivo ogni giorno. Ma è proprio perché avverto in maniera inquietante questo distacco sempre più profondo che voglio dire qualcosa.
Sull' efferatezza del crimine di Fermo, nel quale un branco di giovani ha ucciso un ragazzo nigeriano, Emmanuel, massacrandolo di botte e a colpi di spranga, dopo averne insultato la compagna, apostrofandola "scimmia negra", si sono spese e si spendono parole grevi di sdegno e di condanna. Tutti accomunati nello stesso coro di tragedia greca, tutti velati di nero. Ed è umano e giusto che sia così, un tale atto di selvaggia crudeltà non può indurre ad altro. Eppure nel coro ci sono note stonate, parole che sono indizi senza scampo di una verità sconcertante. Poco fa, per caso passando da una stanza all'altra dove c'era il televisore sintonizzato su una trasmissione, mi sono bloccata nell'udire una voce di donna (nessuno ha saputo dirmi chi fosse e me ne dispiaccio), che asseriva con ferma convinzione che "nel quadro di un episodio connotato dal razzismo, si è appurato che l'assassino e i complici appartengono al mondo della tifoseria calcistica e quindi non direttamente al fenomeno del razzismo". Non volevo credere alle mie orecchie, ho chiesto delucidazioni, ma niente, il televisore non aveva nessuno davanti. Lo sconcerto si è tramutato in collera, molto presto. E la collera nella riflessione tristissima che  non impareremo mai ad assumerci responsabilità e doveri. E questa è l'abbagliante fotografia della nostra società, civile e istituzionale. Questa è la farraginosa confusione nella quale arranchiamo, silenziosi e sgomenti, davanti alle nuove emergenze, davanti alle nuove prospettive di dover convivere con il nostro vicino che viene da lontano. Noi siamo quelli che ci proclamiamo non razzisti, siamo quelli accoglienti, ma zitti tolleriamo e, spesso, rivolgiamo le nostre scelte politiche, a chi è ancora più confuso di noi, a chi non getta la maschera, a chi sceglie di sedere in Europa con i nuovi fascisti  dei nuovi movimenti nazionalisti che stanno scuotendo e continueranno a scuotere l'Europa e non solo. Ci reputiamo non razzisti e voglio credere che, in larga parte, lo siamo davvero. Ma dobbiamo riprendere l'uso della parola e della ragione e chiedere limpidezza e certezza a coloro i quali abbiamo affidato il compito di rappresentarci.
Poi ci sono loro, i razzisti e credo che siano la minor parte di noi. E vanno isolati: E non vanno scambiati per "tifosi", come se questo rappresentasse il discrimine: chi umilia, picchia, ferisce, uccide un essere umano è un essere spregevole e chi umilia, picchia, ferisce, uccide un essere umano per il colore della pelle è un essere spregevole e razzista. Chiamiamo le cose con il loro nome, anche se ci è difficile farlo.

Edward Hopper  "Room in New York"  1940



lunedì 4 luglio 2016

Stupefacente.

Stupefacente. Stupefacente la presunzione di se stessi che alcuni possiedono e alla quale sono incollati com'è attaccata una protesi dentaria - chiedo venia per la trivialità della figura, ma è incisiva -  alla gengiva. Mi imbatto sempre più spesso nel web, mondo sempre meno virtuale e sempre più consistente e affamato di reale, in brevi o lunghi monologhi di individui in preda a deliri di onnipotenza ( e qui, per fortuna, solidamente virtuale) che farneticano di " cancellazioni", di " pulizia" ovviamente riferendosi a ignari contatti, ritenuti rei di cosa? Ma di lesa maestà, lapalissiano! Alludendo gli improvvisati condottieri e fautori di se stessi alla latitanza di questi malcapitati fantasmi dai social. Più specificamente alludendo alla latitanza dalle  pagine dei suddetti condottieri, rien de rien, né like né commenti. E allora, via, scatta la punizione, una sorta di moderno giudizio ostracizzante che fa degli inconsapevoli, i novelli esuli del web. La cosa in sé è abbastanza ridicola, ne convengo, se non fosse che questi comportamenti, questa prevaricante concezione di sé, questa arrogante imposizione di una visione privilegiata di se stessi e del proprio pensiero, non si riflettesse - o non fosse il riflesso ingigantito dalle masse -  nei comportamenti degli uomini e delle donne della politica e del potere. Lamentela universale è quella che riguarda la superbia e l'arroganza di chi ci sta sopra, di chi manovra le nostre vite con scelte che,, spesso, non corrispondono a quelle volute da noi; ma nel recluso angolo del nostro spazio, davanti al pc, siamo smemorati, diventiamo tutti arbitri, tutti giudici, tutti manovratori, sprezzanti degli altri, fieri di noi stessi.  Da noi, in Sicilia, vige un antico detto (che traduco):"Il pesce puzza dalla testa". In questo caso, però, potrebbe essere ambivalente, il marcire del pesce, potrebbe dipendere dalle viscere e dalla pancia.oltre che dalla testa. Anche noi, come il potere, non resistiamo alle panie dell'autoincensamento e alla gratificazione di un elogio spettrale ed effimero com'è quello di chi, non ci  conosce in carne e ossa Uno specchio riflette perfettamente quello che vi si riflette. E forse è proprio questo inganno che aumenta l'autostima di alcuni: l'eterno mito di Narciso, il bellissimo giovane che rimirando se stesso nelle acque limpide, non s'accorge di annegarvi dentro.


Edvard Munch  "Il giorno dopo"  1895

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