sabato 24 settembre 2016

Le voci.

Le parole e le voci che arrivano dal mondo intorno a me, a noi tutti, sono spesso odiose menzogne, brandelli informi agitati per creare disorientamento e paure.  Tra queste riusciamo a distinguere a malapena quelle che non mentono e sono voci e parole di dolore sconfinato, di sofferenze inaudite, di agonie strazianti: sono le voci e le parole degli innocenti, dei bambini sepolti sotto le macerie delle guerre, abbattuti come secchi ulivi assetati d'acqua e di pane. I bambini siriani, i bambini di Aleppo e di Baghdad, i bambini afghani, pakistani, libici, palestinesi. I bambini dell'Africa e i bambini delle favelas sudamericane. I bambini di quelle parti del pianeta dove la vita di un bambino non ha valore, è un numero da aggiungere alla lista dei morti, è la fotografia da offrire ai nostri occhi pietosi, per un attimo, quello che ci basta per piangere, quello che ci basta per avvertire la coscienza sporca. Ma passa presto.Abbiamo le nostre voci da ascoltare, abbiamo le nostre parole da dire, ci salva la distanza, ci salva il mare che inghiotte i corpi, ci salvano i confini e le barriere, da tutto questo.
Eppure quelle voci  e quelle parole sono reali, lo sappiamo bene. Continuano a bussare, entrano nei nostri sogni, sono il soprassalto del cuore nella notte, sono l'appello ripetuto ed echeggiante di qualcosa che vorremmo mettere a tacere, nascondendola a noi stessi, sono la nostra umanità perduta e disconosciuta.

Le sento le voci e non sono pazza,
non sono legata ai polsi non ho la camicia
macchiata d'infamia, non ho sbarre
al mio letto, le sento le voci distanti
echi di onde maligne, di flutti schiumosi.
Le sento le voci e sono canzoni dolenti
sono bisbigli e lamenti dispersi dal fuoco
ferroso, piove dal cielo sordo il veleno,
cartilagini di città seppelliscano i morti.
Le sento le voci mi battono dentro,
incessanti giochi di bimbi nel mare
tra dune di sabbia e nudi relitti
mi chiamano e sanno il mio nome.


Vincent Van Gogh "Ulivi" - 1889

domenica 18 settembre 2016

Mater amorosa.

Mi è capitato di leggere molte note interessanti concernenti gli ultimi tragici accadimenti. Molte sono state compilate da donne. Mi è capitato anche di sperimentare, nelle ultime settimane - o più probabilmente ne ho presa consapevolezza, intima coscienza adesso, proprio per via degli stessi eventi - la cortese e velata compiacenza, a volte neanche tanto velata né tanto cortese, nei confronti delle mie opinioni, delle mie idee, del mio essere convintamente e finalmente libera d'ogni laccio e vincolo imposti dall'ipocrisia generale e generazionale.
C'è ancora ben salda, massicciamente scolpita nell'immaginario maschile, la figura compassionevole della mater amorosa. O se si preferisce la versione pagana della dea Vesta, antica benefattrice del focolare domestico. La donna che accudisce e consola, la donna che deve assolvere, come ruolo primario e indefettibile, al compito di badare al benessere fisico e spirituale dell'uomo.
Una visione arcaica che, seppur fortemente negata e, a parole, relegata a un mondo ottocentesco se non medievale, ancora alberga, insinuante, in molti e insospettabili uomini. L'archetipo femminino della madre (alcuni si spingono alla modernità della donna sorella-amica) rimane immutabile e incrollabile.
Ciò non toglie che la donna abbia le più svariate opportunità, oggi. Lavora e fa carriera, vive la propria vita sessuale come e meglio le aggrada, sceglie la maternità nel momento per lei più opportuno ( mi correggo, in teoria dovrebbe essere così, nella pratica sono cavoli amari).  Con il placet dell'uomo, spesso ammirato, spesso anche sbalordito. Come se non se l'aspettasse, come se tutte queste energie, questo vivere fossero una grazia concessa a noi donne e non una faticosa, annosa, complicata conquista. Ma è nelle emergenze, negli eventi drammatici, nei fatti sconvolgenti l'ordine stabilito che si nota l'irrigidimento, il dietrofront severo degli uomini. Ed è doloroso, è umiliante, più per loro però.
Non ammetto l'atteggiamento di sufficienza, non tollero l'amabilità ipocrita di un complimento, non sopporto la supponenza di un primato intellettuale.
Spesso, purtroppo, siamo noi donne a consegnarci a questa visione mistificatrice. Con il nostro silenzio, il nostro consenso deluso, con il nostro desiderio di essere amate, con il nostro opportunismo anche.
Un uomo ha scritto che gli uomini possono cambiare: se la donna sa, vuole , può cambiarli. Io dico che noi donne sapremmo, vorremmo e potremmo farlo. Ma prima dobbiamo sapere, volere, potere cambiare moi stesse. Senza più tacere, senza più timori.

Mary Cassatt: Louise Nursing Her Child, 1898.

mercoledì 14 settembre 2016

E vi maledico.

Sono arrabbiata, Sono veramente arrabbiata. E disgustata. Due episodi recenti mi hanno, ancora una volta, confermato i miei dubbi circa il degrado culturale e morale in cui l'Italia, una sua cospicua parte, versa.
Il primo riguarda la bambina di Melito. La sedicenne, oggi, usata come oggetto sessuale dall'età di tredici anni (per tre anni!) da teppisti criminali (uno figlio di un boss locale) nel silenzio spaventoso, omertoso di tutti: Sapevano tutti e tacevano. E ho ascoltato alcune dichiarazioni di donne, di vecchi, di giovani, la stessa indifferenza generata dalla paura. Se non il dito puntato, l'accusa "se l'è cercata". A tredici anni si cerca il primo contatto con quello che potrebbe apparite amore, ci si affida al ragazzo che corteggia e pare cotto: Ci si affida senza rete, perché spesso la rete non c'è, i genitori sono distratti, sbattono la testa tra le mille difficoltà del vivere; e la scuola e i compagni e le compagne non ci sono, sono un'assenza pesante: la scuola è solo un edificio in cui recarsi di malavoglia  e i compagni e le compagne sono chiusi, come lei la bambina di Melito, chiusi nel loro guscio di noia, di cattivi programmi televisivi, di solitudine  ai cellulari e su Facebook. Una solitudine che avvolge un paese e i suoi ragazzi e li trasforma in mostri e in prede. Alla fiaccolata erano in quattrocento su undicimila abitanti, la giornalista ieri ha detto a muso duro al sindaco:" Dovevano esserci tutti, tutti." A me resteranno per sempre impresse le parole della bambina: "Mi sento una merda".

Il secondo episodio è forse ancora più agghiacciante, ammesso che si possa stilare una simile graduatoria.
Una giovane di trentun'anni si suicida, impiccandosi.  La storia gira attorno al web, è nel web anzi che prende corpo la tragedia. Dei filmati hard, sei pare, con uomini diversi in cui c'è lei, la ragazza consenziente. Messi sul web, forse da lei stessa, per una storia di tradimenti, di ripicche verso l'ex. Una storia di squallore, una storia di perdita della dignità. Da quel momento, per mesi e mesi, la ragazza diventa la troia a cui indirizzare ogni oscenità, ogni insulto. La ragazza si uccide e gli oltraggi continuano anche adesso.
Ho detto che prima che, forse, questa vicenda è ancora più raggelante della prima. Perché una vita si è spenta, perché la morte è stato l'epilogo. Ma anche qui, tutto quello che mi balza agli occhi è la sconfinata solitudine, l'abbandono malato, l'esclusione da una società altrettanto malata e morbosa. Il web come palcoscenico per essere e non importa come ci si mostra, c'è la platea infinita ad aspettare, non le parole che non sapeva dire, ma l'unica cosa di cui era certa, il suo corpo offerto al piacere di moltissimi uomini oltre il piatto schermo di un pc.
Una storia di solitudine, di fragilità psichica, di esclusione sociale. Per una donna il peso può diventare insostenibile. Per una donna.
E gli uomini? Immagino (ne sono certa a dire il vero) che quelli che, senza pietà, la chiamano ancora adesso che è in una cella dell'obitorio, che l'appellano come "troia" "puttana" e peggio ancora, siano gli stessi che hanno spiato dal buco della serratura, che si sono messi davanti al pc a gustarsi lo spettacolo.
Ecco a questi uomini vanno le mie maledizioni più sincere.
Un'ultima cosa. Si parla tanto, e a ragione spesso, della totale mancanza di rispetto e di tolleranza, se non di manifesta violenza,  da parte del mondo islamico maschile nei confronti delle donne. E da noi, in alcuni casi, in certi contesti, in certe comunità, come siamo messe noi donne? E gli uomini chi sono e come sono?

Gino Covili "Meditazione"  1973

martedì 13 settembre 2016

C'era una volta.

Torno sul tema delle "assenze". Quando l'orizzonte si restringe e diventa un confine insuperabile, ogni mancanza, ogni lontananza è un ago sottile nella carne e nell'anima. Ci si interroga, i dubbi hanno necessità di essere lacerati, si esige finalmente la verità da se stessi e dalla vita. Ma è un sentiero impercorribile, impervia scalata tutta in salita, il terreno è accidentato, sconnesso e il panorama che si scorge non sempre rinfranca l'occhio. Balzano i ricordi, dalle pietre e dai grovigli di rovi, balzano le immagini di momenti felici, di volti infantili, di capelli arricciati tra le dita come fossero anelli, di risate festose e scrosci di lacrime, brevi tempeste da placare con un bacio. Si susseguono nella pellicola mentale fotogrammi scomposti, cronologicamente disorientati; eppure così sanguigni, vitali, che vengono fuori, sfiorano, accarezzano: li afferriamo, ne respiriamo l'odore. Si fanno presenze di carne.
Non v'è altra maniera, non ne conosco altra.

C'era una volta.


C'era una volta un fiore
lanciato dal cielo e dal vento
ad arrossare le guance dell'isola
ed elfi e fate intrecciavano giochi
tra le spume verdi d'erba e di mare.
Uno soffio d'aria calda ne colse uno
e lo portò in volo all'isola lontana
ai piedi del vulcano gentile lo poggiò
e qui si aprì al sole, selvaggio e festoso.
Piccola erica, cuore di brughiera.


Donegal - copyright

Holger Leue



domenica 4 settembre 2016

L'immortale.

Ipocrisia. Credo di essere arrivata in quel punto preciso della vita nel quale si fanno i conti con se stessi. E con il mondo e con gli altri. La prima riflessione che mi saltella dentro è che, inutile negarlo, siamo tutti ipocriti, chi più, chi meno. O, per lo meno, lo siamo stati di volta in volta, a seconda delle contingenze e pena l’esclusione sociale. Infatti  il timore dell’esclusione sociale, di una solitudine involontaria è uno dei motori ruggenti che danno lo sprint all’ipocrisia. Mostrare compiacimento, approvazione verso chi si ritiene abbia un qualsivoglia potere – intellettuale, culturale, politico, economico  - è l’atto di un conformismo ipocrita plateale, che investe e ha investito un po’ tutti.
C’è poi l’ipocrisia congenita e per quella non vi è soluzione: è un abito culturale ed educativo e proviene da anni, se non da secoli, di imposizioni autoritarie che determinano il carattere del futuro ipocrita. A questo segmento, ben impresso nella nostra società, appartengono i fornitori di chiacchiere,  i curiosi oltre misura – non intellettualmente – che adeguano volti di circostanza e pronunciano parole di circostanza a scopo estorsivo, quando nella realtà della loro quotidiana routine,  non gliene frega niente  delle altrui vicende e non provano alcun afflato, emotivo, sociologico, antropologico. Indossano le maschere,  per l’occasione,  quella della vergogna, del disagio, della pietà, del disprezzo, della misericordia anche!
E ancora, ed è molto diffuso, esiste il caso dell’ipocrisia nascosta a se stessi, perché il giudizio  che l’ipocrita, nascosto  a se stesso, avrebbe di sé,  potrebbe incrinare le certezze e le abitudini di una vita: per intenderci, l’ipocrisia nascosta a se stessi si disvela nella frase “io non sono un ipocrita”. Come avviene anche per la gelosia e l’invidia, diffidare sempre di chi dice con mite occhio  e dolce bocca “io non sono geloso/invidioso”. O almeno è consigliabile premunirsi di un corno rosso o di altro oggetto apotropaico.
Insomma, i greci hanno dato un nome alla veste di cui ci copriamo ed è una veste che non si lacera, è una veste che ci ricoprirà in eterno. Immortale.
Concludo questa mia riflessione invitando tutti, me per prima, a saper fare buono e moderato uso dell’ipocrisia, capisco benissimo quanto sia necessaria a volte. Ma senza eccessi. Anzi, se vi va, potete cominciare adesso con me, spedendomi  al diavolo.  Accoglierò l’invito, giuro,  senza ipocrisia.

Ah! Tanto per tenere desta la nostra memoria. Ecco la frase più schifosamente ipocrita che sia stata mai scritta:
“Il lavoro rende liberi”  - Campo di concentramento di Auschwitz.

giovedì 1 settembre 2016

Un settembre buono

Abbiamo tutte delle preferenze, anche per i mesi. Io ne prediligo due. Uno di questi è settembre. Forse perché chiude il ciclo dell'estate, delle vacanze e mi trascina alla quiete delle stanze; e perché conservo sfocati ricordi dell'infanzia, di odori e sfumature persi nel viaggio. Ma sopra ogni cosa perché ho provato, per due volte, la gioia di vivere a settembre.


Un settembre buono

C’era un settembre chiaro
Senza foglie ingiallite, erano d’oro
Pendenti dai rami irti al cielo vicino
Così vicino da rapirmi dentro .
C’era un settembre  allegro
Tremava tutto di canti e di risate
Avevo la veste larga sulle gambe
Così volavo tra le mongolfiere.
C’era un settembre ricco
Di fremiti e profumava di rose
Tardive, una mi cadde accanto
Era la più bella e la più selvatica.
C’era un altro settembre
Avevo la luna nelle notti tiepide
A sorvegliare i sogni dei bambini
C’era un settembre ed era buono.


Gustav Klimt "La Speranza II"  -  1907


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