Ipocrisia. Credo di essere arrivata in quel punto preciso
della vita nel quale si fanno i conti con se stessi. E con il mondo e con gli
altri. La prima riflessione che mi saltella dentro è che, inutile negarlo,
siamo tutti ipocriti, chi più, chi meno. O, per lo meno, lo siamo stati di
volta in volta, a seconda delle contingenze e pena l’esclusione sociale.
Infatti il timore dell’esclusione
sociale, di una solitudine involontaria è uno dei motori ruggenti che danno lo
sprint all’ipocrisia. Mostrare compiacimento, approvazione verso chi si ritiene
abbia un qualsivoglia potere – intellettuale, culturale, politico, economico - è l’atto di un conformismo ipocrita
plateale, che investe e ha investito un po’ tutti.
C’è poi l’ipocrisia congenita e per quella non vi è soluzione:
è un abito culturale ed educativo e proviene da anni, se non da secoli, di
imposizioni autoritarie che determinano il carattere del futuro ipocrita. A
questo segmento, ben impresso nella nostra società, appartengono i fornitori di
chiacchiere, i curiosi oltre misura –
non intellettualmente – che adeguano volti di circostanza e pronunciano parole
di circostanza a scopo estorsivo, quando nella realtà della loro quotidiana
routine, non gliene frega niente delle altrui vicende e non provano alcun
afflato, emotivo, sociologico, antropologico. Indossano le maschere, per l’occasione, quella della vergogna, del disagio, della
pietà, del disprezzo, della misericordia anche!
E ancora, ed è molto diffuso, esiste il caso dell’ipocrisia
nascosta a se stessi, perché il giudizio che l’ipocrita, nascosto a se stesso, avrebbe di sé, potrebbe incrinare le certezze e le abitudini di
una vita: per intenderci, l’ipocrisia nascosta a se stessi si disvela nella frase
“io non sono un ipocrita”. Come avviene anche per la gelosia e l’invidia, diffidare
sempre di chi dice con mite occhio e dolce bocca “io non sono geloso/invidioso”. O almeno è consigliabile premunirsi
di un corno rosso o di altro oggetto apotropaico.
Insomma, i greci hanno dato un nome alla veste di cui ci copriamo ed è una veste che non si lacera, è una veste che ci ricoprirà in eterno. Immortale.
Concludo questa mia riflessione invitando tutti, me per prima,
a saper fare buono e moderato uso dell’ipocrisia, capisco benissimo quanto sia necessaria
a volte. Ma senza eccessi. Anzi, se vi va, potete cominciare adesso con me, spedendomi
al diavolo. Accoglierò l’invito, giuro, senza ipocrisia.
Ah! Tanto per tenere desta la nostra memoria. Ecco la frase più
schifosamente ipocrita che sia stata mai scritta:
“Il lavoro rende liberi” - Campo di concentramento di Auschwitz.
“Il lavoro rende liberi” - Campo di concentramento di Auschwitz.
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