mercoledì 25 novembre 2015

Diverse da Lucy

Non mi piace usare la parole ‘celebrazione’, non si dovrebbe celebrare, nel 2015, la giornata contro la violenza sulle donne, non dovremmo sentirne la necessità. Ieri cadeva l’anniversario, il quarantunesimo credo, da quando fu dissepolto lo scheletro di Lucy l’australopitecus etiope che ha permesso agli scienziati di progredire nella ricerca dell’evoluzione umana. E la coincidenza  temporale ha assunto, ai miei occhi, un significato quasi esoterico, magico. Non casuale. L’australopitecuse Lucy era una femmina e non sappiamo, ma possiamo immaginare, soggetta al maschio dominante per motivi prioritari. I ruoli, insomma, erano ben definiti, Lucy partoriva e portava avanti la specie umana e il maschio, anonimo in questo frangente, cacciava, sfamava e proteggeva dai pericoli i piccoli. E forse, come nei fumetti, qualche colpo di clava, Lucy se l’è beccato. Ma tutto questo appartiene alla notte dei tempi, al buio dei primordi e gli esseri umani o gli ominidi sconoscevano ancora l’uso della parola, esprimevano i sentimenti con gesti,  giacché sono certa che provavano emozioni e sentimenti, magari embrionali, magari senza la compiutezza della ragione, ma li provavano. E Lucy avrà pianto o si sarà arrabbiata molto per quel colpo di clava.
E oggi? Oggi siamo qui a ricordare le donne vittime della violenza maschile. Come a dire che molte donne vivono la loro vita con un nemico accanto, l’usurpatore dei loro diritti alla speranza, all’amore, alla libertà di essere, dopo milioni di anni, diverse da Lucy.
Provo un senso di disagio e non per le mie sorelle  di sesso, ma per gli uomini. Che il loro sesso, le loro stesse peculiarità di genere, ne facciano potenziali aggressori, stupratori, assassini. Orribile. Ma certificato, con cadenza ossessiva, dai fatti di cronaca, dalle testimonianze di volti tumefatti, se non dai corpi straziati di molte donne; orribile, ma reso tangibile  dalle confessioni’  ( perché spesso le violenze subite vengono percepite come una colpa!), anche, di chi conosciamo. Orribile, ancora una volta, uno spettacolo di ripugnante disumanità a cui, purtroppo, si guarda (e non solo da parte degli uomini!) con volgare, nauseante, sospettosa superficialità: quante volte ci è capitato di leggere, di ascoltare. in calce agli articoli inerenti a stupri o violenze, quante volte abbiamo letto o ascoltato commenti simili “E va bene, se l’è cercata, con quella mini” o “e perché si è vestita così? Che cosa voleva? L’uomo si sente provocato?”  oppure “e allora? Era ubriaca fradicia proprio come un uomo!”o ancora “Però lo tradiva!” come se l’ abbigliamento , la sbronza, l’emancipazione sessuale  possano giustificare, sminuire la gravità  della violenza, possano  giustificare la clava sulle odierne Lucy.  Il fatto è che serpeggia, subdola, un’ignoranza  dura come un guscio di noce che va schiacciata,  questa sì con determinazione e forza. Una subcultura trasversale che riesce a imbrigliare nelle sua trama tutto il mondo, forse è una delle rare condivisioni che accomunano, almeno in parte, gli uomini e le donne di ogni nazione: queste nella reiterata menzogna di  dover accettare il ruolo sacrificale di vittime designate; quelli nella comoda, accogliente menzogna di una supremazia fisica e intellettuale, retaggio di un ancestrale richiamo della foresta e dei millenni passati.

Un’ultima riflessione la dedico a Valeria, la ricercatrice italiana uccisa a Parigi; e con lei, a tutte le donne sacrificate dalla guerra a subire la violenza dello stupro, del terrore, della morte. E alle spose bambine che non hanno diritto all’innocenza delle bambine. Le donne pagano sempre un prezzo altissimo, in molti Paesi, solo perché sono donne. Ma abbiamo un cervello, oltre che cuore e utero, diamo ascolto al nostro cervello. Facciamone, sempre più, un uso migliore. Uomini e donne insieme. Perché Lucy e il suo compagno con la clava sono solo scheletri.



Artemisia Gentileschi   "Susanna e i vecchioni  (1610 - 1622?)

martedì 17 novembre 2015

Né a Dio, né a un'idea, né alla vita.

Lo scoramento che abbiamo provato in questi giorni è stato il necessario obolo alla superficialità con cui, spesso, siamo indotti dalle circostanze e da un larvato cinismo a vivere le nostre piccole esigenze e le nostre stesse vite. I tragici fatti di Parigi - perché quelli dell’aereo russo nel Sinai e la strage a Beirut e tutte le altre non avevano provocato una simile partecipazione emotiva, tutt’al più un vago sentore d’inquietudine subito rimossa -  ci hanno scaraventato violentemente in una realtà disumana e crudele. Per tre giorni, da quel maledetto venerdì sera, ci siamo rimpiccioliti, siamo ritornati a essere entità inermi, piccoli nei disegnati nel corpo inintelligibile della Storia, punti che la mano devastatrice della violenza cieca e addestrata può cancellare quando le pare. E credo che sia questo il principale obiettivo, la vittoria da conseguire per i portatori di morte, per i negatori di Dio, farci inghiottire dalle tenebre del terrore, strapparci alle nostre esistenze e alle nostre abitudini.
In tutto questo orrore, nel brivido che scuote tutti noi, restano come macchie infamanti e indelebili, i corpi spezzati degli innocenti, giovani donne e giovani uomini, qualunque sia l’appartenenza religiosa; resta l’urlo osceno “Allah akbar”  perché è una oscena bestemmia invocare Dio e spargere il sangue dell’uomo; restano i giochi luridi di chi finanzia questa violenza, le sotterranee complicità di chi ha un solo dio, il denaro, davanti al quale inginocchiarsi; restano le manipolazioni,  le maschere lugubri di alcuni politici sedicenti giornalisti che scendono in campo armati per il loro personale Risiko; restano, e questo è l’indice della nostra cialtroneria bassa e sciocca, le chiacchiere, i distinguo, le prese di posizione “nette e chiare”, senza che ci si renda conto di camminare nel buio, senza capire che la chiarità è lungi da venire.
Sarà la guerra? Non lo so, spero di no, spero che ci si fermi in tempo. Ma, se dovesse accadere, che nessuno la chiami Santa, che nessuno dica all’altro,  infedele. Perché le guerre non sono mai sante, non lo sono mai state, e coloro che le scatenano non hanno il diritto di proclamarsi fedeli.  Né a un Dio, né a un’idea, né alla vita.


James Ensor   “L’intrigo”

venerdì 13 novembre 2015

La Bellezza non fa paura.

Allora, oggi, voglio parlare di un fatto accaduto a Firenze, città gloriosa per l'arte in tutto il pianeta, e si tratta di un fatto che mi ha suscitato uno scoppio di amarissima ilarità, a causa della grottesca deriva che la mente umana ha imboccato.
A Firenze, dunque, dentro Palazzo Strozzi, è stata aperta al godimento del pubblico, la mostra pittorica 'Bellezza divina', che, come si deduce dal titolo, mette in rassegna dipinti di Maestri dell'arte, quali Van Gogh, Picasso, Munch, Chagall e altri, e che hanno come tema il sacro, in particolare, in alcune tele, la Crocifissione del Cristo.Come spesso accade, e giustamente, gli istituti scolastici sono stati tra i primi a essere invitati per fruire della Bellezza dell'Arte. E veniamo al punto. Il consiglio scolastico di una scuola elementare della città toscana, ha creduto opportuno declinare l'invito, adducendo a movente la necessità di "venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche verso il tema religioso della mostra." Com'era prevedibile è detonato lo scoppio, il caso  è finito su tutti i media, tutti ne hanno parlato, i politici schierati in prima fila. Un bocconcino offerto sul fatidico piatto d'argento a Lega e Fratelli d'Italia che hanno gridato, se non al golpe laicocomunistafilomusulmano, se non allo scardinamento totale degli italici costumi, quasi. E ne è venuto fuori un coacervo di frasi, anatemi, indignatissime proteste, tutto sotto l'egida millenaria della Religione di Stato. Sia ben chiaro che io nutro il massimo rispetto nei confronti di tutte le sensibilità individuali verso la religione. Tutte. Se io mi trovo in un Paese musulmano e mi si vieta di entrare in Moschea, se non ho un abbigliamento adeguato, io mi adeguo. Lo stesso in Cina o in India. O in una sinagoga. E lo stesso in un paese cristiano, nel mio caso cattolico, se è tradizione antica apporre nelle scuole il Crocifisso, chi è di religione diversa, è tenuto al rispetto di quella tradizione. Anche se, personalmente, auspicherei per il futuro, una scuola laica, dove le religioni siano esclusivamente oggetto di studio, magari durante le ore di filosofia o di storia o, per gli studi primari, semplicemente dei racconti, raccontare le religioni non sarebbe una cattiva idea.
In tutto questo trambusto, dunque,  due sono le cose che mi lasciano sbigottita e voglio dirle.
Dovrebbe essere ovvio che i ragazzi, in questo caso i bambini, imparassero, al più presto possibile, a rispettare le diversità che incontreranno lungo l'arco della vita, diversità culturali, etniche, religiose. E questo percorso formativo, ai miei tempi, si chiamava "conoscenza", "cultura". Imparerebbero a confrontarsi, a scegliere, ad apprezzare tutto ciò che non fa parte del loro vissuto quotidiano. Ne sarebbero arricchiti e si stimolerebbe in loro la nascita del "senso critico", ovvero del pensiero, della ragione.
Altro punto, sul quale non ci si è soffermati, è che ci si trova di fronte a "opere d'arte" di indiscutibile grandezza e valore! Ma come si fa a giudicare sulla liceità o meno, sull'opportunità di far vedere o meno a dei bambini, i capolavori dell'Arte? L'Arte non merita questi tribunali, l'Arte è Arte sempre, negli occhi degli adulti come in quelli dei bambini. E un Crocifisso dipinto da Chagall non può spaventare o turbare un bambino, se dietro non c'è un adulto che, sciagurato lui,  ne abbia timore o  provi turbamento nel vederlo.
Siamo noi adulti che abbiamo il cervello in fiamme e non siamo più capaci di vedere la Bellezza. Sono certa che quando i bambini, di qualunque credo religioso essi siano, potranno vedere la mostra, non avranno paura, non saranno turbati dalla visione di un altro Dio: resteranno con gli occhi spalancati, colmi di colori, di grazia, di linee di luce abbagliante.  
Saranno colmi di Bellezza.


Vincent Van Gogh  "La Pietà"  1889




domenica 8 novembre 2015

Sfacciata giovinezza!

No, mi sono detta, non può essere, lui non è vecchio! Lui, il mio sogno erotico e non solo, il cavaliere ardente che mi portava via dalla fatica del vivere, lui con quegli occhi azzurri e ghiacciati come un lago alpino, che non riuscivano a celare le ombre di fragilità e solitudini.
Oggi compie ottant'anni lui, Alain Delon e non ci volevo credere. Ma poi mi sono messa davanti allo specchio e ho capito che il tempo è così, distratto, indifferente e scorretto, se ne va senza guardarsi dietro, senza vedere i guasti che arreca. Se ne va il tempo allegramente e porta via con sé colori e luci, lasciando tonalità incerte e segni incisi. Tutto scolora, tutto si fa opaco, il tempo stende un lenzuolo liso su ogni cosa. Ma non ha potere sui ricordi, quelli no,  restano e sembrano prendersi gioco del tempo. Perché lo eludono, gli scappano dalle mani avide. E Alai Delon resta l'uomo più bello che io abbia mai visto, e l'attore magnetico, fortemente carnale e, nella stessa misura, intenso, con un'interiorità selvatica che trasudava dai gesti e dagli occhi, sempre quegli occhi che perforavano i cuori e le fantasie di noi donne, impegnate eppure sognanti.
Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo, L'eclisse, e poi ancora La prima notte di quiete, Borsalino e tenti altri,  ed era un appuntamento al quale non si poteva mancare. Come non mancammo, io e alcune amiche tutte deliranti come me, di recarci a Taormina (non ricordo l'anno, ma saranno circa quaranta) per scalare i gradoni del Teatro Greco - allora il David di Donatello veniva conferito in quella meravigliosa sede (oggi, si direbbe location, ma io sono d'antan) -  inerpicandoci senza badare agli abiti che si sgualcivano, forse avevamo tutte le minigonne e chi se ne fregava, allora, di mettere in mostra qualcosa in più, eravamo scatenate. E il cielo era nero e gli accendini brillavano come migliaia di lucciole in amore e Alain ci passò accanto, bellissimo e sorridente, con quel suo sorridere sempre un po' imbronciato che ci faceva venire subito sciami di farfalle nella pancia. Eravamo prossime allo svenimento, urlavamo e agitavamo gli accendini e poi lui raggiunse il palco. Ne parlammo per giorni, dimenticammo per qualche tempo tutto il resto.
Il tempo corre, tempo crudele sì. Ma la giovinezza, ah la deplorevole, sfacciata giovinezza non la può acchiappare!
Auguri mio sogno giovane, auguri Alain.


Michelangelo Antonioni  "L'eclisse"   1962

lunedì 2 novembre 2015

Non assenza, presenze.

Qui da noi, in Italia, oggi si commemorano i defunti. Che alle mie orecchie ha un suono orribile, lugubre, di carne e ossa sfatte sotto un metro di terra. E si commemora, oggi, anche la morte di un Poeta, Pier Paolo Pasolini. E ne parlano tutti, ognuno con i propri ricordi, alcuni con toni di sincera commozione, altri con l'enfasi che vuole l'elogio e l'approvazione. Si citano i suoi scritti, le sue poesie, i suoi film; il web è inondato di foto e citazioni, è una maniera per dire che è ancora tra noi, con i morti si fa così, anche nell'intimità dolorosa di chi resta, si fa così: un padre, una madre, un figlio, un amico, ci accompagnano con i gesti e le parole che li distinguevano, da noi stessi e dagli altri. Sono questi gesti e queste parole, la testimonianza che sono stati fra noi, affiancati a noi per un pezzo di strada. Le assenze non si colmano, però, con le memorie di un giorno di novembre, sarebbe un'ulteriore rinuncia, una ripulsa ingrata per chi ci ha amato e che abbiamo amato.  Io, e spero come me molti altri, tengo in serbo, serrate dentro la mia effimera carcassa, le assenze, mi vivono dentro, sono presenze sempre, ogni giorno dell'anno, ogni mese dell'anno. E così non voglio ricordare Pasolini, né per i libri, né per le parole, queste e quelli li posso ritrovare quando voglio. Lo inserisco, invece, tra i miei assenti, tutti quelli che mi sono stati vicini per un periodo della mia esistenza. Anche lui, pur se non mi è stata concessa la gioia di conoscerlo di persona, mi è stato compagno, in una lontana, luminosa e, al contempo, irresoluta giovinezza.

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