lunedì 25 maggio 2020

Dietro i vetri e non è un diario.


Ora potrei dire che ho riflettuto, che ho rovistato dentro la mia carne, affondando nel sangue che scorreva feroce e vivo nella penombra della lampada, con le scale agitate da fantasmagorie dietro i vetri della finestra affacciata sulla strada  abbandonata dai passi di uomini e donne con i cani al guinzaglio, per l’ultimo giro d’aria. Ora potrei parlare di quello che abbiamo vissuto, ma mi è ancora dolcemente doloroso, mi pare di sfiorare un ematoma pulsante verso cui tende, irrefrenabile, la mano. Non voglio stilare un diario, leggo che ne sono in procinto di edizione o almeno in speme, decine o chissà centinaia di scritti, pensieri e vite di forzata clausura. Ciascuno di noi, e siamo milioni, custodisce percezioni, sentimenti, che siano simili o no poco importa. Non ho curiosità particolari su questo. Quello che mi sollecita è il binomio, involontario, solitudine o isolamento - cambiamento.
Dunque si sbandierava, assieme ai tricolori alle finestre e ai balconi, il cambiamento. S’aggirava per la penisola uno spettro, ma era uno spettro che non incuteva timore, anzi: andavamo in brodo di giuggiole perché ci piaceva, perché no, essere migliori. O credere con una seria certezza di poterlo diventare. E quindi le piazze, sconfinati deserti e bellissime, delle nostre città, la gioiosa consapevolezza di contribuire al loro respiro; la commozione per i medici e i sanitari, l’emozione drammatica di Papa Francesco sperduto davanti al colonnato di S. Pietro.  I cori, i canti, i musicisti, gli artisti, tutti a chiedere con affettuosa premura di restare a casa. Buoni, a casa. E lo siamo stati.
Per un po’. Poi tutto è scemato, le mani hanno smesso di applaudire perché i morti non diminuivano, le bandiere sono state arrotolate, i cori si sono zittiti, gli artisti e tutti gli altri hanno cominciato a mostrare una ciclica prevedibilità e tutto è piombato nel silenzio, quello effettivo della solitudine.
Ci siamo messi, come la mia colombaccia sul ficus, a covare. Rabbia e frustrazioni, rancori, paure, attese disattese sono esplosi sui social - pleonastico dire  che questi sono ormai il termoscanner dello stato morale, politico, economico, sociale di una nazione -  e ne hanno fatto le spese alcune persone che, per un motivo o per un altro, hanno surriscaldato la minestra scotta ma sempre avvelenata della ciancia nostrana e  la ripresa gloriosa della nostrana fatwa non si è fatta attendere, a chi tocca tocca.  Fine della bontà, fine del mondial festival della fratellanza.
Quindi, se ne dovrebbe dedurre che l’isolamento ci ha danneggiati,  spiritualmente oltreché materialmente.
Parrebbe di sì, di primo acchito. Sicuramente ci ha impoveriti economicamente e sarà durissima sfangarla la vita, ma non per tutti. Questo è il primo madornale abbaglio che ci ha accecati: la crisi non è per nulla democratica,  mieterà le sue vittime tra i più fragili, falcidierà i deboli, proprio come ha fatto il virus. E come ancora lo fa, dall’altra parte del globo.  E nulla, o poco, si sa dell’Africa. Quelli che rabbrividiscono per gli sbarchi, potrebbero tirare un sospiro di sollievo. Sì, lo so, sono cattiva, mi adeguo.
Parrebbe dunque che la solitudine - oltre le torte e i dolci fatti in casa, che bello! E i libri, quanti ne abbiamo letti e la musica e i film riscoperti, ah! I vecchi film (io per prima eh) - ci abbia resi perversi, rabbiosi, pronti a sferrare l’attacco al primo disgraziato che capitasse sotto tiro. No, non è così, non lo credo. Perché la solitudine è straziante per la mancanza e fa piangere la sera, quando anche il soffio di vento dietro i vetri della finestra cessa e tutto diventa un cielo senza voci e le voci delle persone assenti ti rimbalzano nella testa e nel petto e vorresti afferrarle e quando i volti lontani si affacciano dall’etere tecnologico c’è il sobbalzo del cuore e resti a spiare ossessivamente quei tratti, i movimenti, li riconosci, li riapprendi, li leggi. Senza toccare, immobilizzi  le mani che sono rami inutili. La solitudine è chiudere il cervello all’oggi e fingersi nel futuro e immaginare, tutto quello che manca, tutti gli assenti. La solitudine è costruire il domani, con pazienza.  La solitudine è fatica, un avvolgersi in sé, una coperta da tessere per proteggersi.  Aspettando. Mi piace pensare che diventi un lavoro, un’occupazione nella quale impegnare quella parte di noi che, nel trambusto del fuori, del gomito a gomito, della pacca tra colleghi, è sempre negletta, oscurata. Uno sbilenco, schiacciato io a cui non rispondiamo perché non abbiamo tempo.
La solitudine-isolamento no, non ci ha cambiati, non tutti, forse anche pochi. E quei pochi sono quelli che, in qualche modo, l’hanno riconosciuta perché, in un altro tempo, in altre occasioni, gli è stata familiare.
Ora siamo liberi, da qualche settimana, ci siamo tolti le catene e ci ritroviamo nella palude di Lerna con l’Idra ancora pericolosamente vivo e con i nostri bisogni e paure e contorcimenti e lividi e pugni serrati ( e quanto crudele sostegno dà a questo nostro inquieto spaurito vivere, l’informazione, "il vaccino salvifico ci sarà a breve, no, tra molto, anzi mai, no ci sarà a breve ma non per tutti" gli esclusi quelli non mancano mai) . Come prima,  peggio di prima. L’incantesimo della Bella Addormentata è finito, sono stati cento anni questi due mesi, per la nostra cattiva coscienza. Mettiamola in libertà e non diamo la colpa all’isolamento, almeno non questo, non quest’ennesima ipocrisia. Siamo così e non vogliamo cambiare. L’altro è un’idea da cui prendere le distanze. E ora che ci è permesso di tornare fuori dalle nostre stanze, fisiche e ideali stanze, rientriamo con scalpitante bramosia tra la folla. Ritorniamo a essere massa, delusa e incollerita perché ulteriori incertezze, ulteriori inganni, ulteriori trappole stanno dietro l’angolo.
La solitudine era il ricovero temporaneo alle nostre afflizioni, l’oblio di noi stessi: eravamo altri, potevamo essere altro. Oggi sciamando per le vie, insofferenti alle mascherine umide di sudori già estivi, sgattaiolando bruschi di fronte a chi ci viene incontro -lo sconosciuto temuto, la minaccia incombente - entrando sospettosi nelle botteghe riaperte a fatica, li lasciamo lì, gli altri noi, quelli che siamo stati in tutte quelle ore sospese in una surreale quotidianità.  Li confiniamo nelle stanze d’ombre e parole e pensieri, come ologrammi di noi.

Edward Hopper "Early Sunday Morning" 1930






mercoledì 6 maggio 2020

Cocci.

Mi chiedo cosa ricorderò di questi giorni, mi chiedo cosa sarò io e come affronterò la vita.  Anche se non sarà poi così lunga. Non ho risposte, non ne trovo, devo rimettere al posto che gli tocca tutti i cocci. Per adesso ho solo frammenti, cocci.


Cocci.  4 maggio 2020

C’è un vaso di terracotta
smozzicato
d’ocra rotta in più punti
come la mia testa
che sta attaccata al collo
solo per rispetto del tempo
perché le resti dentro.
Sta il mio coccio tra gli altri cocci
del giardino spigoloso, arricciato
ammucchiato e croccante di foglie
sotto le suole di gomma,
le ciabatte di due mesi ai piedi
che mi impediscono di raggiungere
una strada, un sentiero, una costa.
Ho letto romanzi stravaganti
e uno magico scritto da qualche strega,
ho letto poesie  addolorate d’amore,
anche le mie parole prive di versi ho letto
distici, esametri scomposti, terzine
vacillanti per lo spavento nuovo
per il distacco rotto dalle sirene.

Ho ammazzato il desiderio, di tutto.

Ho spaccato sminuzzato le mie pene
come mandorle e nocciole
le ho amalgamate all’impasto
di ciambelle e torte infornate
perché il calore scacciasse il gelo
dalla casa e dalla vita.

Niente pensieri niente rimpianti
niente niente niente niente niente

Era il nemico da sconfiggere
il desiderio vorace e l’ansia
li allungavo con l’acqua per non
ubriacarmi di dolore nel buio
che andavo cercando, ogni sera.

Ho tenuto duro, sono stata brava
mi sono tolta le dolcezze dell’attesa.
Di un sorriso, di un abbraccio, di una fuga.

Sto qui tra i miei cocci, sbeccata
tra i ciottoli calpestati dagli uccelli
e la rosa bianca gonfia i boccioli
e l’asparago è una piuma.


Edward Hopper "Cape Cod morning" 1950


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