mercoledì 18 dicembre 2019

Bene, sarà Natale.

Dovrei scrivere qualcosa sul Natale. Come ho fatto negli anni scorsi, dovrei farlo anche solo per non spezzare un rituale. Mio, uno dei pochi che mi restano. Ma sono accadute molte cose, una in particolare, talmente deflagrante da sovvertire i miei ritmi, i miei propositi, le mie giornate. C'è molta vita, c'è una nuova vita a cui fare spazio, a cui dare tempo. Il mio tempo è scandito da piccole mani e smorfie che s'apprestano a sbocciare in sorrisi, da sguardi ancora opachi ma vigili.
Così il mio Natale sarà un Natale vero. Con qualche malinconia, ma la malinconia è la Festa. C'è sempre qualcosa che manca, c'è sempre un'assenza e in quei giorni addobbati ci sarà. Mi dico da anni, da quando quest'assenza si è manifestata ripetendosi di tanto in tanto, che è così che vanno le cose e le cose, beninteso, sono le nostre esistenze. Ci si abbraccia, ci si afferra insieme nel volo verso la vita, ti tieni stretta a quella carne, a quel corpo finché puoi farlo, sapendo già che dovrai lasciarlo andare. La treccia di fili d'oro, ricordi? non è bastata. Ma c'è sempre un sottile filo sospeso che attraversa il mare e scavalca catene montuose e scivola su spiagge e s'incunea tra strade e s'alza sulla cresta spogliata dei platani e poi atterra al tuo terrazzo e bussa ai vetri. Quel filo sottile non si spezza.
Bene, sarà Natale. Sarà Natale, alla faccia di chi dice di detestarlo, di chi dice di aborrirlo, perché gli appare un'ipocrisia sberluccicante. E di sicuro, se ci fermiamo ai decori e al rosso e all'oro e all'argento e allo sfinimento dei jingles, di sicuro è ipocrita puntare gli occhi all'abete, fingendo di ignorare gli spifferi gelidi sulla nuca, i respiri gelidi di chi è dimenticato da tutti. No, non è questo il Natale, per me. Ma è altrettanto ipocrita e inutile negare a sé e a chi ci sta accanto, la gioia di un sorriso, di un abbraccio, di uno sguardo luminoso. Perché è questo il senso del Natale, è questa la luce, è questa la gioia: una gioia monca, come i miei tre pastori monchi nel piccolo presepe allestito con l'aiuto scalmanato della micia. Una gioia accolta, anche se incompleta. Dolorosamente incompleta.
(Ecco, ho scritto sul Natale e dire che non avrei voluto. Però sono contenta, non mi allineo con gli scettici, i cinici, i sarcastici tristi e compulsivi. Adoro essere un'outsider!)

Pablo Picasso - "Père Noël", 1965

mercoledì 13 novembre 2019

La giornata della gentilezza.

Trovo parecchie difficoltà nel recuperare gentilezza. Anche in me, nelle mie azioni e nelle parole. Ho imparato a strapparmi dalla ritrosia infantile, da quella pulsione straordinaria che mi trascinava in una solitudine rassicurante: da bambina e anche da adolescente non mi piaceva stare assieme agli altri, il gruppo mi infastidiva. Preferivo un libro a un pomeriggio con le compagne. O anche un cielo o un muro ai quali parlare. Non ero comunicativa, ero silenziosa, schiva, gli altri non mi appartenevano. Eppure avvertivo il dolore, la sofferenza in un modo acuto, tremavo e le lacrime riempivano spesso i miei occhi. Una mia compagna di liceo mi disse, molti anni dopo "tu eri così, con la testa da un'altra parte, sempre. Ma eri gentile e generosa". Forse è vero, forse ero da un'altra parte.
Come oggi. Come in questi anni e mesi e giorni che non passano mai, mai diversi eppure irriconoscibili, irricevibili. Da sbatterli fuori a calci, da tenerli lontano da tutto, senza alcuna gentilezza.
Questo tempo che è un urlo, una sconcezza di filastrocche per adulti istupiditi; questo tempo che non riconosce più la decenza di un gesto gentile e giusto; questo tempo che nega diritti elementari
a chi ha più diritti perché respinto, umiliato, ucciso; questo tempo non mi piace. E a parlare di gentilezza, oggi, m'assale una stanca tristezza, mi pare che si voglia invitare tutti con la retorica fasulla del popolaresco volemose bene per un giorno, ché domani ci scanniamo.
Mi accorgo di non credere più alla bellezza, al concetto stereotipato di essa, la bellezza come immaginifico riflesso di quello che vorremmo vedere, anche nella nostra quotidianità, la bellezza gentile che appaga solo noi e che ci rende, per ciò stesso, ciechi al resto. L'illusione di essere capaci di possederla perché ci sfiora è l'atto finale della sconfitta dell'umanità. Nel chiuso delle nostre case e dei nostri affetti, nell'appagamento dei nostri desideri materiali e non solo, nella consuetudine di gesti e di parole, di letture e di conversazioni troviamo quella bellezza gentile che ci permette di sopravvivere. Come nell'osservazione di un'opera d'arte o nell'ascolto di una musica eterna o ancora nelle parole di un grande poeta, ritroviamo tutta la bellezza del mondo.
Ma non basta. Non a me, almeno.
Quella bambina solitaria che amava discutere di sé col cielo e con un muro, ha trovato, con fatica, la bellezza nella percezione della sofferenza degli altri. Non rinnego la meraviglia di ogni giorno, degli affetti, del gatto di casa, degli oggetti familiari, della città severa e tiepida, del tripudio d'ogni stagione, no. Ma non è tutto, non è il completamento di me e di ogni uomo e donna.
La bellezza della gentilezza è corale, appartiene a tutti, è partecipe di tutto e di tutti: è il sentimento della gioia ma soprattutto del dolore degli altri e senza questo non si completa.

Giuseppe Carosi "L'angelo dei crisantemi (del dolore)" 1921

venerdì 1 novembre 2019

Vi porterei un fiore.


A te mamma  porterei una tuberosa
ti stordirebbe con quel profumo acuto
vi tuffavi la faccia a settembre
e a te nonna una rosa rosso cupo, la papa Meilland
se non ricordo male,
non so quale altro fiore ti piacesse,
è una rosa generosa e fiera, ti somiglia.
Alla bambina che era mia sorella,
un ciuffo scherzoso
di piccoli garofani bianchi
come i due dentini che ti luccicano in foto,
alla zia, a quel donnino smilzo che eri,
con te entro in confusione,
tu li amavi tutti i fiori,
ecco allora un variopinto fascio di corolle,
magari disordinate, un poco fruste com'eri tu.
Alle vecchie zie certamente iris e calle,
i fiori della belle époque,
eravate due ceppi di un secolo a me ignoto.
A te Giovannina, due girasoli da mettere
alle orecchie al posto dei cerchi d'oro
o i fiori di vaniglia per i tuoi biscotti.
All'altra nonna e all'altra zia un fiore,
uno qualunque, magari un po' esotici
irregolari come il vostro affetto e il mio.
Ai miei suoceri,  crisantemi ricci e folti,
eravate legati alle tradizioni giuste, voi
ma a te Maria aggiungerei i mughetti
così timidi e riservati.
E a mio padre e ai nonni sconosciuti
porterei foglie di tabacco e magari
in mezzo, di soppiatto ci infilerei una gardenia
da appuntare al bavero.
A tutti gli altri, e siete in tanti,
tutti, tutti i fiori della mia memoria.


Ambrosius Bosschaert il Vecchio "Natura morta con fiori" 1614


martedì 29 ottobre 2019

Brava gente.

Da un po' di tempo ho smesso di scrivere su questa pagina qualsiasi riflessione che possa essere accostata alla politica. Non è che me ne sia disinteressata, tutt'altro, io sono politica dentro, ce l'ho da quando avevo quindici anni e feci una scelta, optai per essere quella che ancora sono. Non ho cambiato opinione e sono fermamente convinta che, al contrario, si possano cambiare le proprie opinioni e le proprie scelte - si dice che è un segno inequivocabile di intelligenza.  Io no, sono una fedele, non mi tradisco. Forse non sono intelligente.
Ho sempre pensato, se non dai miei quindici anni, dai diciotto, che gli italiani non siano bravi e buoni. Non sempre e non comunque.
Sono bravi e buoni nelle loro case (tolti i casi di violenza che non sono pochi e non tutti noti), sono bravi e buoni con chi li ossequia e li ingrassa di lodi e, meglio ancora, di pecunia. Sono bravi e buoni, ma fiacchi sostenitori della coscienza civica, dei bisogni altrui, delle esigenze di minoranze che, a dirla tutta, stanno un po' sui coglioni a questi italiani bravi e benpensanti. Sono pronti a puntare il dito su chi tiene un comportamento diverso, abitudini bislacche, costumi sessuali che vanno fuori dalla norma imposta e dalla Chiesa - frequentano poco e male, ma sono cattolici eh! e cristiani, come no - e dalla prassi sociale, prassi che si tramanda senza che vi sia bisogno di carta e penna, è nelle papille gustative delle nostre fauci, il sapore dolciastro del pettegolezzo piace. Partecipi, inclini alla sofferenza del vicino, purché la sofferenza non ci sfiori. Il nostro recinto deve restare saldamente cinto da staccionate, a protezione di roba e interessi, anche affettivi. La roba non è solo quella squisitamente verghiana, sì è quella del soldo, dei beni materiali, ma è anche quella cosa lì, indefinita e segreta, che non vogliamo spartire con altri. Noi siamo noi e basta. Dante, Leopardi hanno detto tanto e così meravigliosamente del carattere di noi italiani, che ancora le loro parole stanno qui tra noi a scandire il nostro tempo, ma senza influenzare i nostri comportamenti.
Noi, brava gente nelle nostre case e nella nostra famiglia - ah! la famiglia, questa ostrica saldamente chiusa, questo scrigno che cela sovente gemme false - noi gorgogliamo empiti viscerali d'amore, esaliamo struggente riconoscenza, esultiamo in trionfale festosità, di fronte al Capo. All'Uomo - no, no, non quell'Uomo, quello era troppo mite, quello porgeva la guancia, quello stava troppo con gli altri, i miserabili, gli storpi, gli ultimi. No, a noi brava gente piace tanto l'uomo come noi, sì un po' qualunque, un po' scalcagnato nell'eloquio, neanche troppo intelligente, furbo sì, scarsetto di cultura, meglio se possente d'aspetto (fa tanto maschio), con l'occhio fermo e il pugno, no che dico! la mano, il braccio fermo. Fermo a indicarci ogni cosa, fermo lì a bloccare il nostro presente e il futuro, fermo a decidere per noi. Perché è bello affidarsi a qualcuno, perché è bello sapere che c'è una guida, perché è più facile decidere ciò che è già stato deciso da un altro che abbiamo scelto.
Tutto visto? Tutto vecchio e irrancidito? Certo, ma il rischio di optare, noi brava gente, per il padre-padrone c'è. E quello che mi dà da pensare è anche il cauto, molle, esangue approccio dei media: un vedere e non vedere, un sì e no, uno strizzare l'occhio ma non più di tanto, Solo quel tanto che basta per non sporcarsi troppo. Anche questa è una splendida peculiarità tutta italiana.

George Grosz "Metropolis"  1916-17

lunedì 14 ottobre 2019

Vorrei parlarne con te.

In un soprassalto tra veglia e sogno. Nel gorgo delle parole e delle visioni che arrivano, schegge di insopportabile atrocità, dai luoghi del dolore e della violenza. E della vigliacca coscienza.



Vorrei parlarne con te, discuterne
mentre ti spingi a forza nella poltrona
con le gambe oscillanti come due ali
imprigionate, di civetta o di
pettirosso, o forse di chiù
-        lascio a te la scelta del volo -
I tuoi occhi si allagherebbero d’ombre,
di risposte incerte, di domande
a cui non saprei rispondere
se non con il dolore che provo.
Adesso in questi giorni senza pietà
mi chiederesti perché la guerra.
Lo chiederei io a te, mi sei adesso
anche madre oltre che figlia.
Mi porgeresti una mano,
la mano ancora da bambina
e la stringerei nel cavo della mia
quella carne che si ripiglia la carne
la riavvolge in sé in un unico nodo.
Resteremmo così nella sera che respira
piano là fuori, precipitata da chissà
quale cielo oltre i tetti calmi della città.
Non avremmo bisogno d’altro.

Ti ho sentita arrivare dal corridoio
e l’aria si saturava dei tuoi capelli
imbrigliati nel fermaglio di legno,
si colorava dei tuoi orecchini marini
si incendiava di frange e bracciali.
Come nelle foto catturavo l’Altrove.

Gustav Klimt  "Fregio di Beethoven"  1902




giovedì 3 ottobre 2019

Tutti i miei occhi

Prima del sonno, sempre inquieto. Nei soprassalti notturni, arrivano. Dal passato. Che è ancora vivo.


Tutti i miei occhi  

Cerco di staccarli gli occhi
Me li scollo dalla pelle e dalla
testa.
Si sono impigliati nel reticolo
delle mie cellule
però.
Dovrei scorticarmi il cuore,
ridurre in stracci la memoria
forse.
Non avete stagioni voi occhi
non dormite mai, siete stelle
inquiete.
In estate smaniosi di notte
vi spalancate nel buio tutt’intorno
ai muri caldi

D’inverno tremate di freddo
e vi accolgo, vi avvolgo nel
tepore del letto.
Ma l’inverno è lungo,
e scalpita, batte, rincorre
dà spallate, mi scuote
L’inverno è pieno di voci
Di un valzer nella sala affollata
di vecchi
Di mani aggrappate alla gonna
di un sorriso adorabilmente
sdentato
L’inverno è un muro di cinta
che spezza che spacca
la vita.

Gli occhi
d’estate corrono sul filo
degli alberi
o sulla cresta delle onde
Si svagano si sfaldano
nei meriggi sontuosi
di colori e di sensi
No, in inverno no.
Già in ottobre,
in questo suo passo timido
che arranca sui rami ultimi
dell’ultima rosa,
gli occhi si voltano indietro
riprendono a scavare
la galleria
quella che mi riconsegna
a loro.
Gli occhi insonni
i vostri amati chiari occhi
E i miei che non hanno
riposo.


Egon Schiele  "Donna che dorme con la camicia rossa" 1908


venerdì 6 settembre 2019

La nostra colazione.

Ogni mattina è il ripetersi di una cerimonia che non c'è.


Il tavolo della colazione



Mi rendo conto che non sei seduta
di fronte, non hai addosso la vestaglia rosa
e i piedi arricciati dal freddo
a grattare il pavimento di rovere.
Ogni mattina, anche all’alba
mi rendo conto che non sei con me
non ci sono due tazze celesti di tè fumante.
E la mia marmellata di pere o di fragole.

La faccio sempre e la mangio per te
Come fossi la tua bocca imbronciata di sonno.

Eri tu a chiamarmi col fischio del boiler
e ti irritavi se ero al telefono a rispondere:
Era un’intrusione in quello spazio
che conteneva i nostri fiati e quello del tè.
Era il nostro oracolo, il nostro tempio,
o forse la nostra soffitta di bohemiennes
aggrappate a questi anni, agli ultimi suoni
emessi dalle ambulanze giù in strada
alle ultime parole che ci saremmo dette,
sedute a quell’immaginario tavolo di bistrot
che tale era, di ghisa e marmo e adesso
affonda le zampe all’ombra del ficus.

Ma il ficus non ha niente a che fare con te,
con noi due sedute a bere il tè verde.

Questi luoghi non li percorri, non li agiti,
non li tagli con gli occhi, non li ami.
La cucina non è più azzurra,
di quell’azzurro di Provenza
che è stato sconfitto.

Faccio colazione  seduta sullo sgabello,
 solo un uccello sul trespolo
in precario equilibrio.


Claude Monet "Colazione in giardino" 1873

lunedì 26 agosto 2019

Stanotte ti ho sognata.

Dicono, così dicono, che quando non si è più giovani, si smetta di sognare. Per me non è così.



Stanotte ti ho sognata.  24 agosto 2019


Era il liceo, mamma?
Era quel  portone che varcavo
senz’ ancora coscienza di me
che camminavo distratta
per i vicoli e i cortili
ammassati nella miseria
della città vecchia
senza scampo né suoni?
Non ricordo campane
né echi di rondini
solo brusii di bambini
e di ragazzi pallidi
dalle scarpe sgraziate.
E richiami di madri
dal ventre  gonfio
di figli e di fame.

Era quello il tempo, mamma?

Ti ho scorta dritta davanti a me
non avevi le spallucce incassate
di quell’ultima casa straniera.
Eri dimessa negli abiti color
della pietra, di pietra porosa
ti crollavano addosso
in un collasso di muscoli e tendini.
I capelli appiattiti sul sommo del capo.
D’ucello  schiacciato nel nido
Ti ho riconosciuta varcare l’ingresso
e abbrancare le scale di marmo
tutta una ellisse salivi e io dietro.

Oh, mamma quel bianco
immortale palazzo
per corridoi e sale blindate
percorrevi e cercavi, cosa cercavi?
Rovistando nel tempo passato,
com’è stato difficile seguire
i tuoi esili piedi.

Mi perdevo e ansimavo
tremavo nelle ossa
di uguale colore
di uguale tremore
della pietra che si sgretolava
a ogni tuo passo.
Cammino nella scia della
tua polvere, mamma.

Poi mi hai guardata
con quel tuo sguardo
d’altro celeste.
Ho fretta, mamma, ti ho detto
e ci siamo lasciate
in silenzio.

C’era un turbine d’intorno
una velatura di massi
che rovinavano sulle selci
m’offuscava gli occhi.

Ora correvo giù in un gorgo
di scale - la tua ellisse, mamma -
il palazzo ondeggiava e sbatteva
ora  s’era scurita la pietra
era calata la notte e io, oh se lo sai,
ho paura della notte, mi acceca.

Uscivo alla luce.
Nascevo di nuovo da te, mamma?

Fuori  c’è il respiro del mare,
una strada in leggera discesa
e tu eri  lì ferma, la mia sentinella.
Dove vai, mamma ti ho chiesto
E tu eri muta e aspettavi
Vieni con me, mamma,
andiamo da Erica,
andiamoci insieme ti ho detto.

Tu hai sorriso e mi hai offerto la mano.













venerdì 23 agosto 2019

E, ovviamente, l'amore.

So che questo genere di argomenti, questo parlare non di cieli azzurri e di palpitazioni estive sotto lune rosse, di flutti al tramonto e di vette rosate dall'ultimo raggio,  so che non suonerà felicemente alle orecchie degli innumerevoli cuori poetici che si aggirano qui.
Più di una volta mi è stato fatto notare che la politica non si può fare seduta su una sedia, dietro uno schermo; che è tempo sprecato; che è meglio non sporcarsi con una cosa così sporca: è consigliabile afferrare nuvole e spazi luminosi, spingersi oltre le umane miserie. Volare alti, alti. A costo di perdere di vista la terra che calpestiamo giornalmente e con essa gli esseri umani e noi stessi, quindi.
Ma io appartengo a una generazione che non poteva fare a meno di sentirsi "politica", di vivere la politica anche dentro le stanze di casa, di assaporarla come vino ai pasti. Di farci l'amore, pure quello; e, ad alcuni di noi, ce lo ha insegnato.
E allora mi appassiono sempre, mi sdegno sempre, mi illudo e mi sconforto sempre. Come in questi giorni, tragicomici e non dissimili da altri del passato, che hanno segnato le mie ore. Incollata davanti allo schermo a sentirli e a guardarli sfilare, questi ometti rissosamente tristi. Già! Mi ispirano tristezza perché sono il riflesso corporeo di un Paese triste e rissoso: come potrebbero essere altrimenti? Quali altre energie buone potrebbero emanare, se nessuno è disposto a coglierle, ad accettarle, ad accompagnarle?
Ai loro volti abbronzati e strizzati dal timore della perdita (pensate, pensiamo al fremito di ansia che li assale, "E ora? Cosa farò?" Il potere assaggiato è l'esca della schiavitù), ai loro volti contratti si si alternano quelli gaudenti, giulivi dei commentatori negli studi televisivi. Perché è una pacchia, una manna dal Cielo parlarne. Ognuno parla e parla e parla, contraddicendosi, dandosi idealmente teneri buffetti sulla guancia, ruminando la più nuova, clamorosa, eclatante e definitiva esegesi della penosa situazione in atto. Sempre sereni, mai arrabbiati, seraficamente asettici.  Sempre cinicamente sul posto,  attorno al cadavere della politica e della nostra povera patria. E io li osservo, li ascolto e mi sdegno: sdegno aggiunto allo sdegno. Stanno aspettando, mi dico, che in qualche modo si scannino, che la politica venga, ancora una volta, decapitata. Giustiziata.
Rendo merito e onore al Prof, Massimo Cacciari che ancora si incazza e si sdegna. Come me.
Come dovrebbe essere per tutti. Anche per chi non vuole parlarne e preferisce i cieli e il mare e il sole. E ovviamente l'amore.


Edvard Munch  " Il bacio "  1897

sabato 17 agosto 2019

L'ultimo ferragosto, di oggi. Di ieri.

Il ferragosto se n'è andato. E a me s'allarga il cuore: meno caldo, spero, meno obblighi di stare insieme. Un ritorno alla solitudine, quella dei silenzi prolungati delle stanze, ma anche quella dei fruscii in giardino e delle pagine che scivolano tra le mani.

L'ultimo ferragosto di oggi e di ieri.


I guizzi nell'acqua dall'erba

molli gesti della pigrizia 
riconquistata
perché si nuota come bambini
schizzando sputi salati
le mani incise da solchi di freddo.
Fuori una saetta s'infila nella schiena
non cade dal cielo quasi nero
e le stelle
sono tutte cadute a San Lorenzo
stanotte c'è solo la luna
mezzana
di quando ero ragazza e portavo
sulla spalla scoperta 
una treccia.
Nel giardino d’ortensie piegate
le cicale si fregano le ali
sono allegre
nel corteggiarsi sulla magnolia,
c’è tra noi chi le scambia
coi grilli
io dico di no, che quelli
sono sapienti, quelli dei campi.
Ma non si parla stanotte
non si parla dell’oggi.

Mangiamo e ridiamo alla mensa
a turno ridiamo
il vino che scorre non è sacro
come un tempo nel tempio
nel nostro tempo
e nel nostro 
tempio.
Oh! i giochi, le vittorie
e le sconfitte e le urla
di chi non sa perdere.
Rientrano in fretta
schiamazzano e i cani
accucciati per terra 
sobbalzano con musi stupiti.
Uno scroscio, un tonfo,
un repentino scatto
una foto scolorita nella
scatola magica.
Non siamo cambiati.
Con altre ossa, con cuori
dal ritmo pazzo, 
con occhi segnati 
da veli notturne.
Siamo qui, 
in questo ferragosto di oggi.
Di ieri.


Pablo Picasso "Paysage à Valleuris, la nuit"  1952

venerdì 19 luglio 2019

Erano soli.

Che Nazione è questa? Da ventisette anni mi pongo questa domanda e la risposta la conosco, dolorosamente. Ogni anno si celebrano due uomini, si ricordano gli uomini e le donne che morirono insieme a loro, e sono diventati per tutti, nella tragedia consumata in quei due maledetti mesi, gli Eroi. Due uomini che volevano il cambiamento, ma quello delle viscere della nostra terra, quello che avrebbe dovuto rivoltarla, zolla per zolla, con l’aratro della legalità, della giustizia, della Verità.
Gli è stato impedito con un semplice tocco, un clic che li ha polverizzati;e con i corpi scempiati, hanno polverizzato ogni speranza. Lo avvertimmo subito, noi uomini e donne onesti, che era tutto finito. Lo avvertirono anche i miei figli, seppur quasi bambini. Le mani lorde di sangue agguantarono anche noi. Il sangue degli eroi ci schizzò addosso, divenne la nostra macchia indelebile.
Per ventisette anni abbiamo atteso che da quella nube tossica di sangue e di polvere venisse fuori qualcosa e qualcuno che ci mostrassero quella mano. No, non quella che premette il telecomando, quella ci è stata consegnata. Vorremmo, noi uomini e donne onesti, quell’altra mano. Quella che si sfilò, inerte e molle, dalle spalle di quegli uomini e donne, che non volle accompagnarli, che li lasciò soli. Che fece un cenno di resa e di silenzio.
Ventisette anni di governi, tanti e non ne escludo nessuno, che hanno parlato di volere la Verità, la hanno invocata. Sempre celebrando, sempre ricordando con solerte puntiglio quegli uomini e quelle donne. Eroi, sì li chiamano eroi.
Ma il loro sangue è ancora qui sulle strade, la nostra memoria di donne e uomini onesti urla di dolore e di vergogna perché sapere è un diritto, sapere è il dovere che ci portiamo addosso nei confronti delle future generazioni.
Quando racconterò ai miei nipoti di quegli anni – se ci sarò – avrò due sole certezze da dire.
“Erano due uomini giusti ed erano soli”

lunedì 8 luglio 2019

C'è spazio, sì:

Arrivano senza annunci, senza preavvisi, le visite al cuore. E vi si insediano.



C’è spazio, sì se allentiamo
Le grinze
Ci vorrebbe un ferro a vapore
Per stirarle
Ma c’è spazio, lo sento
Nel flusso
Dei polsi che battono
Saltando
Un verso sbagliato
C’è spazio nella geometrica
Poesia
Del mio cuore corto
Di fiato
Lo liscio e lo allungo
In verticale
Lo scuoto e lo allargo
In orizzontale
C’è spazio, sì
Adesso
Puoi entrare a piccoli
Passi
Senza fretta, non correre
Sei piccola cosa
Minuta
Delicata e profumi
Di nuovo
C’è spazio, sì è accogliente
Fai con calma
Che io ti aspetto.



Salvador Dalì "Ragazza alla finestra"   1925





giovedì 27 giugno 2019

La mia città degli incontri. Barcellona Altrove

Sono trascorsi i giorni, frettolosi, maledettamente frettolosi. L'ho lasciata col cuore in pezzi, l'altra città. l' altrove dove vive il mio Altrove. La città che non mi è più straniera e non lo è mai stata, no, neanche la prima volta quasi quindici anni fa e non sapevo che ci sarei tornata ancora e ancora. Di lei è superfluo parlare, dei suoi monumenti, di Gaudì e delle sue fantasie folli e terribilmente belle che un poco straziano ed eccitano i nervi. Né della Rambla troppo affollata o del Barrio Gotico o dei Musei. Sono le tappe convenzionali, come La Barceloneta, così vitale e giovane da accecare i sensi, da farti venir voglia di tornare indietro per assaggiarla da ventenne.
Per me Barcellona è sì questo, ma è altro. Per me è incontro.
L'incontro con i platani sontuosi dei viali e delle piccole piazze con i palazzi che le cingono, con quell'architettura improvvisamente raffinata, nordica da sembrare Parigi, i carrer che tagliano il Poblenou ,anche qui la Rambla aperta alle raffiche che s'insinuano dal mare. Quello, il mare, è sdraiato a pochi passi, ci si arriva passeggiando per vie più strette, una libreria e un negozio di giochi, il Mercato coperto e la bottega dei fiori. E sempre i bar, piccoli e tumultuosi costellano le strade: impensabile non sedersi a sorseggiare il mio cortado descafeinado.
Ci si incontra a Barcellona. A Barcellona si parla, con tutti.
Il primo incontro, subito quasi al mio arrivo ed è lei, minuta e allegra, la signora con la bici e i fiori nel cestino. Ci ferma e in un italiano perfetto ci chiede:"Italiani?" Noi certamente, sì e invece lei che lo parla con disinvoltura, no. Lei è catalana, di Barcellona. Ma ha studiato l'italiano e conosce il nostro Paese. Dice: "L'italiano è la lingua più bella che ci sia," e, pur non volendo, un poco mi commuovo. Mi commuovo e mi arrabbio, l'Italia mi fa quest'effetto, da qualche tempo. Restiamo a chiacchierare, facciamo una foto, ci scambiamo i contatti, sempre lì, vicino c'è la spiaggia di sabbia chiara e s'abbraccia al mare ed il rumore è musica. Il mare, i gabbiani dalle ali enormi ci corrono sulla testa, sembrano vascelli nell'azzurro, tutto è azzurro in quel mattino. La mia nuova amica riprende la bici con il cesto di fiori e si allontana. Si chiama Mar. Sì, Mare.
I giorni camminano, perché hanno voglia di andare veloci? Perché non rallentano il passo? Io ansimo, non sono più giovane. E non li raggiungo mai, non posso.
Una domenica, siamo pigri, abbiamo un languore addosso che prelude alla melanconia del distacco. Così restiamo in zona, vicino alla Casa Che Sfiora Il Cielo, "c'è un posticino dove si sta bene! Cucina autentica catalana, un posto nascosto, frequentato da persone del luogo. Niente turisti, solo nonni"  dicono ridendo.
Il ristorante dei Nonni ( non è così che si chiama, ma è un segreto) è un locale piccolo, stretto e lungo. I proprietari sono marito e moglie e forse c'è qualche altro parente nella cucina. Il cibo è una favola, ci entusiasmiamo, ci perdiamo nell'ordinare baccalà in insalata e poi zuppa di fave e ancora maialetto stufato e filetto con una salsa di funghi che ha la consistenza di una crema. Il dolce, a me che mi porto il vanto d'essere siciliana, mi fa impazzire: arroz con leche, in fondo lo conosco bene, è la base delle nostre zeppole di S. Giuseppe. A tavola si gusta tutto, il cibo e le parole, il vino e le parole. E d'un tratto mi spunta accanto un vecchio signore, oddio quant'è bello, elegante. Viene fuori da un libro di Vàzquez Montalbàn o di Vila-Matas, con quella canizie limpida e gli occhi celesti. il corpo magro e sottile. Inizia a parlare, io capisco poco, ma ci sono i traduttori amorevoli e loro lo conoscono, lo incontrano sempre nel locale, è un signore solo, un vecchio signore d'altri tempi, solo e vuole parlare. Vuole solo che qualcuno gli parli. Quando si allontana dopo averci salutati con un inchino, ho i brividi e le lacrime non le trattengo più.

Barcellona è la mia città degli incontri e del mio Altrove.

martedì 21 maggio 2019

La vida es sueño

La vida es sueño dice Calderòn de La Barca. E io dico che i sogni sono, possono diventare vita.


Non mi resta che cercarti nei sogni

Non mi resta altro di te
non mi restano altro
che i sogni.
In questi, arrivi puntuale
non ti s’inceppa il tempo.
Mi cammini davanti chiara
come una folgore indichi
I luoghi, le stanze
ariose di echi di canti
di sussurri nascosti
tra le tende e i letti,
inganni e trappole
degli occhi  ciechi
sei abile a crearli,
fata Morgana

Mi fai vagare,
mi spezzi le ginocchia
perché sai
di avermi in pugno,
sono più vecchia di te
che attraversi il labirinto
tutta spedita
conosci il percorso, tu.
E livide macchie s’annidano
improvvisamente
dietro una porta chiusa.
Dietro ci può essere
di tutto, ci può essere
un prato e un gatto
color cipria
o un usignolo nella gabbia
che s’arroventa al sole.
Ci può essere una donna
che cuoce una torta
o anche un uomo
che non riesce a piangere.

Folate di vento s’alzano
s’allungano dietro di me
lenzuoli di neve,
la porta scricchiola sui cardini
e la mia mano trema.

Ti sei dileguata, vita?


René Magritte, La filosofia nel Boudoir, 1954


giovedì 2 maggio 2019

Da una frase.

Da una frase di un poeta amato, poche parole e si torna indietro.  A un viaggio a Lisbona, mai completato. A un'amicizia di cartapesta che si dissolve.

Segui il tuo destino,
bagna le tue piante,
ama le tue rose.
Il resto è l'ombra di alberi
estranei.

Fernando Pessoa

Mi sono detta 'è quello che faccio'. Curo le rose, osservo i boccioli che stiano bene senza pidocchietti, vado in estasi accanto alla tunbergia che esplode tra i tralicci vestendoli di viola, spio le gentili dature, giocano a fare le timide fanciulle e non si risolvono a dare i cerulei grappoli; mi chino presso l'ortensia che promette segrete infiorescenze, di tinta ancora incerta, sfioro con lo sguardo la lobelia che pare arricciarsi tutta, è una pianticella sdegnosa. E i gelsomini s'allungano al vento lieve e pure il plumbago scatta verso l'alto, alla ricerca di luce. La camelia, soltanto, con foglie croccanti e dipinte come da un lucidalabbra, s'è già addormentata, non fiorisce in aprile. E le margherite candide ridono sulla siepe. Liriopi e ceratostigma non son precoci, partoriranno sul finir dell'agosto. L'agliastro, il rosmarino, la mentuccia e gli altri aromi stanno nei vasi ad aspettarmi, li visito spesso.  Sotto gli imponenti alberi che custodiscono questo piccolo spazio, crescono due vecchi agrumi, tutti annodati, un mandarino e un limone,
daranno qualche frutto, di dimensioni sparute, ma succosi e aspri.
In un canto, solitaria, selvatica si tende la mia erica. A lei il mio cuore, perché è di carni delicate, fragili fusti svettanti, campanelle trasparenti color d'altre aurore, teme il calore delle mie estati: la proteggerò, le darò i sogni delle sue lande nordiche, la bagnerò con acqua fresca, come se fosse pianto. A tutte loro, ad ogni pianta, posso dare un nome, sono tutti qui, tra queste zolle ricoperte di ciottoli di fiume, i miei amori.

Gli alberi estranei li riconosco, li ho già visti e non mi ingannano più. La loro ombra non mi segue, io non vi cerco riparo. Non più.


Sara Wilson "Il giardino segreto" 1996



venerdì 12 aprile 2019

Tante terre.

Scrivere di me e di altro non mi appassiona, sempre meno avverto l'impulso, un tempo irrefrenabile, alla comunicazione, al coinvolgimento  delle mie più intime sensazioni. Troppo schiva sono divenuta? No, no. Sono stanca, a un certo punto della vita c'è bisogno di placarsi, di smettere di cercare, bisogna riposare. Perché si è spossati dal lungo cammino e anche dagli incontri: è il preludio del silenzio? Della quiete finale? Potrebbe anche essere così.
Sempre più di frequente mi astengo, annoiata, stremata, fiaccata nello spirito e nella residua intelligenza (se mai ce ne sia stata una, mi consola pensarla come un'intelligenza del cuore, ché troppi si esprimono da intelligenti del cervello), mi astengo, dicevo, dal commentare e dal partecipare a interminabili questioni, su tutto e sul nulla. Comincio a intravedere la vacuità di questi luoghi, ne scorgo l'opacità e l'ipocrisia, il conformismo che s'accinge a diventare strutturale all'esposizione sulle piattaforme virtuali. Nulla più mi sorprende, nulla più mi stupisce, in prima battuta sono le mie parole e le mie riflessioni a essermi venute in uggia. Sono esausta.  Eppure in me ci sono voci che si rincorrono, echi smarriti, curiosità irrisolte.  Canti e musiche che mi seducono; strida di aquile zoppe e gracchiare di cornacchie che mi offendono.

Mi viene in mente il bel rapace, signore incontrastato delle vette, che però si è automutilato, infliggendosi la perdita di una zampa, di modo che nel suo volo immaginario di estrema, splendida libertà, viene mortificato dall' handicap.  E certi uomini mi ricordano questi nobilissimi uccelli. Di solito sono   molto eruditi, talmente eruditi da non lesinare la propria ingente scorta di letture in note e chiose e infernali critiche a molti aspetti della vita e della società. Questi uomini-aquile zoppe suscitano in me un miscuglio informe - non riesco a capire dove finisca l'ammirazione e inizi il biasimo.
Si fanno vanto, per esempio,  di essere nati dalla "plebe urbana del sud" che tanto, però, disprezzano (la plebe urbana e il sud); si gloriano di appartenere alla piccola-media  borghesia, quella  che è riuscita a venire fuori dall''esiziale destino che, come  Caronte, attende di traghettare verso dannati inferi, i disgraziatissimi abitanti delle latitudini da Roma (compresa) in giù. Si compiacciono di appartenere, con solerte gratitudine,   a quel nord attivo e vitale e laborioso che nessuno può negare. Si divertono molto a dare patenti di inutilità, di insulsaggine a questo e a quello, del mondo del giornalismo, dello spettacolo, della politica. Triturando in un favoloso tritacarne ogni aspetto del vivere. O quasi, si salvano solo alcuni fortunatissimi.   Allora leggo e mi dico, da convinta democratica, libertaria: tutto lecito, ognuno ha il diritto di esprimersi come crede.
E no, non è vero. C'è un conflitto in corso, un anarchismo evidente. In quei rinnegati e negatori delle origini e anche in me. Mi ribello all'equazione "sud=brutti sporchi e cattivi". Così come questi eccellenti rifugiati economici si ribellano alle loro" miserabili" origini.
Però, però. Il costume indossato da questi cultori di tanto  illustre saper di lettere e storia e filosofia e, via, anche una scappatella dalle parti della sociologia, non mi è nuovo. Ha una foggia conosciuta: è l'abito indossato da chi ritenendosi più forte - anche per lo scampato pericolo - giudica gli altri, meno sorteggiati dalle buone fate, con distaccato occhio.  Che vorrebbe essere asciutto e limpidamente asettico, sterilizzato da qualsivoglia moto dell'animo e invece, scintilla di un'antica, convulsa rabbia. Di un cinismo istrionesco, da palcoscenico o da pellicola. Insomma, il vecchissimo gioco cui partecipò il nostro Sordi in un famoso film "Io so' io e voi non siete un cazzo"
Che  è una costante di molti che si sono "fatti da soli": una specie di estrema rivalsa - che si traduce in una ripulsa -  nei confronti del destino e della terra che li ha visti nascere per poi scaraventarli in giro per il mondo,  un astio per la città arcigna e matrigna che li ha mandati in adozione. Sarà pure un modo di soffrire l'esilio e il distacco.  Non mi azzardo a definirlo "razzismo"ma gli somiglia.

E ripenso a una mia non poesia, parole di tanti, tantissimi anni addietro, nelle quali prorompevo in un inno, un empito affannato di visioni e di amorosi sensi verso le mie Terre che erano tante, dal mio sud "nero lutto greco antico" alle dolci colline e alle pianure torrentizie; dai campanili gotici alle fattorie col tetto di paglia nelle estreme brughiere, tanto amate. Ero europea molto prima che venisse la moneta e la ineludibile delusione della moneta. Oggi? Qualcuno di recente mi ha detto, sorridendomi con affetto: "Sei come l'ultimo dei Mohicani, sei l'ultima idealista" Non lo so, non so se sono l'ultima, non credo.  E sono stanca, provata, scossa. Ma ci proverò.  Proverò ancora, a dispetto dei tanti, a essere innamorata delle mie tante terre.

Anton Mauve "Spigolatori nella brughiera" 1882-88

domenica 24 marzo 2019

Come due amanti

Arriva così, senza preavviso. Arriva incolore e piatta, la consapevolezza della propria fragile esistenza. In una notte senza riposo come in un mattino luminoso e sfacciatamente ingombro di gesti e parole.


E questo che mi aspetta?
Lo chiedo a te che sai tutto.
Rannicchiato in un pugno contro il petto
sprangato nella casa dei sonni accecati
di squarci di lampi lungo il corridoio
Lo chiedo a te che mi sorvegli
dal cancello che non si chiude
vorrei lasciarti entrare o no
vorrei che non mi strappassi da qui
o no, non so perché.
Lo chiedo a te
e aspetto una risposta
che non verrà ché già conosco
la risposta.
Sta nell’insonnia devota
alle mie braccia e gambe
nella gabbia del letto
nell’allegria spezzata dai silenzi
delle notti di questo inverno
È la risposta delle case abbandonate
tutte un fremito di vita, assenti
le belle bocche innocenti
È la parola schiva e disadorna
che da te a me selvatica straziata
sempre ritorna come un boomerang
Come un boomerang
mi s’affigge al ventre alla coscienza.
mi sospira - la voce è ferro freddo .
Te la sei voluta, hai sbagliato
vecchia mia, stupida vecchia.
Ora tientela stretta, tienimi stretta,
abbracciami, abbracciati
Coccolami, coccolati.
Saremo unite
Come due amanti
due attempate amanti
ci faremo compagnia.



Frida Kahlo "Las dos Frida"  1939






Lettori fissi