lunedì 17 dicembre 2018

Non c'è la neve.

Prima che arrivi il trambusto, prima che in quella notte io dimentichi, per una notte, ogni altra cosa. Ogni altro.


Non c'è la neve, il ciclamino
fiorisce
nel vaso sotto il limone
irraggiato
dai fili di seta del ragno
le ore non ballano nel
disco di legno
col gallo
sono corde protese
nel mare
gomene lanciate
alla spiaggia straniera
aspettano con me
quest'altro Natale.
Che sarà invadente
di voci di luci di canti
con cibo e giacigli
per le madri e i figli.
Le case accoglienti,
le porte serrate
a doppie mandate
terranno fuori
le ombre
le paure le angosce.
Faremo bevute
dai calici
e il rossore sarà
senza sangue
senza battiti strani
alle porte serrate
alle finestre sprangate.
Staccheremo i fiocchi
e le carte tra i piedi
com'è d'obbligo che sia,
rideremo di gioia vera
ragazzi bambini vecchi
vecchi giovani cuccioli
gireremo
tra aghi di pino
mentre nasce
un Bambino.
Sempre quello
aspettato
con pecore e stelle
- i più piccini avranno negli occhi
tremule fiammelle -
Ma sappiamo, oh se sappiamo,
che a notte finita col freddo che sale
dalle ossa di terra,
pietre diventano
i canti e le risa.
Sappiamo, oh se sappiamo
che fuori è ancora notte
per troppi, per tanti
che il mare è senza Natale
che oltre le porte serrate
c'è un altro Bambino
ed è sordo, ed è un male.



Vincent Van Gogh "Notte stellata"  1889











venerdì 7 dicembre 2018

Ma chi? Ma dove? Ma quando?

Come spesso accade sono i buoni libri e i grandi scrittori ad aprirci la mente. O semplicemente ad accendere in noi una lucina, a darci un pizzicotto, a soffiarci nell'orecchio, biblicamente, la voluttà della conoscenza. 
C'è uno scrittore israeliano che amo molto - insieme al connazionale Amos Oz - Abraham Yehoshua  e oggi l'ho ascoltato in un'intervista esprimere il suo pensiero sull'Europa, su quell'idealità di Europa Unita che i padri fondatori avrebbero voluto e che non esiste nella realtà. Da scrittore magnifico e da israeliano eccentrico qual è Yehoshua parlava di un sentire comune, di leggi e diritti; e  di società culturalmente e giuridicamente ed economicamente coese : parlava, insomma, di un'Europa Unita, unica, inviolabile, forte. I cui interessi non fossero rivolti alle dispute economiche-commerciali-mercantili  che assumono sovente un aspetto grottescamente ridicolo, bensì a una solidale cooperazione tra gli stati membri, volta alla crescita e al benessere dei cittadini europei. E, ancora, si rammaricava della Brexit, ravvisando in essa i prodromi di una sconfitta catastrofica di quell'idealità europeista.
Mentre stavo a sentire  mi rendevo conto che, con quella nitida e lapidaria semplicità - che incide nel profondo - il grande Yehoshua mi dava voce, faceva sì che anche io potessi parlare.
Erano quelle le parole che io ho sempre avuto dentro, che mi ruzzolavano nella testa; era quello, lo stesso senso di sbigottito sconforto quando appresi della decisione degli inglesi di uscire dalla UE. E mi sono ricordata di un altro sbigottimento sdegnato, da parte di alcuni, ogni qualvolta mi sono presentata come europea, italiana, siciliana. Sì, proprio in quest'ordine.
Invertendo il sentimento di molti, in questi tempi balordi soprattutto, che si proclamano con la mano sul cuore: siciliani (o padani, o sardi e via per tutte le regioni), e poi italiani, sì. Ed europei? Ma chi? Ma quando? Ma dove? 
Io continuo ad amare Yehoshua. Mi rifugio nei suoi libri. Per continuare a vivere.


Emil Nolde "Natura morta con maschere"  1911

venerdì 30 novembre 2018

Quel piccolo caffè.

Quel piccolo caffè nella strada stretta tra i palazzi così vecchi che sembrano alberi scortecciati male, rattoppati qua e là tra le modanature di pietra lavica; quel piccolo caffè che allarga il suo dehors accostandosi alle basole sconnesse della strada ed ecco s'immerge e scompare nel vociare, nei colori, negli odori aspri del mercato vasto e sporco della città. Se mi giro, mentre mi allontano con gli afrori pizzicanti le narici, c'è la maestosità della Chiesa del Carmine a schiacciarmi, con quella sua nobiltà settecentesca un poco sfranta.
Oggi ero lì seduta con la tazzina calda nelle mani e d'un colpo ero a Lisbona. Seduta a un tavolo di marmo nel caffè frequentato da operai e svelte donne affannate,sulla viuzza che si precipitava di sotto dove già respirava l'oceano. Le case attaccate l'una all'altra, i portoni corrosi di ruggine, i murales di qualche pittore giovane e sconosciuto. Il profumo di un dolce troppo dolce anche per me che ci vivo nella terra dei dolci; e poi quel vento appena nato dalle onde laggiù e il sentore che si appiccica addosso di pesce affumicato, di pepe, di cannella.
Il tram era affaticato, si sentiva dal sobbalzo e quando scesi mi accolse il ragazzo di Capoverde che cantava e pareva che piangesse. Io cercavo i suoi passi, ero nervosa, eccitata come se andassi al primo appuntamento con l'amore. Cercavo lui nel ristorante dai larghi portici bianchi dove raccontano si sedeva a mangiare; nelle piazzette così difficili da rintracciare, tutte serrate negli intrecci dei palazzi e delle corte strade; cercavo lui nella libreria disordinata e male illuminata e se spostavo un libro, minuscole scintille di polvere danzavano: vi scovai una sua foto e un vecchio manifesto che celebrava Camoes.
I miei amici erano frettolosi e mi prendevano in giro, gli apparivo un poco matta, ma io sapevo, sapevo che era là, in quella città di melodie del cuore. Sapevo che Fernando Pessoa passeggiava ancora per quelle vie, aguzzo e spiritato nella malinconia avviluppante di Lisbona.
Da allora è una città dell'anima e so che tornerò da lei.
E da loro, Pessoa, Saramago, Tabucchi.

venerdì 16 novembre 2018

Poi non avrò tempo.

Poi non avrò tempo.
Poi non avrò tempo, ci sarà la baraonda che chiude un anno, ci saranno gli amori riemersi dall' Altrove; e quelli sempre accanto, stanziali e fedeli curatori di questa finale silloge.
Ci saranno anche le paure, i tremori e le incertezze che mi sono fratelli e sorelle da qualche tempo.
E ci saranno Attesa e Speranza, a loro alzerò il calice ancora una volta.
Allora mi è più agevole rileggere in me, rapidamente come in una sinossi, i fatti di quest'anno che va declinando, e lo faccio hic et nunc.
Questo è stato l'anno del cambiamento, si dice da parte di molti. E in molti lo hanno voluto e c'è stato. Il cambiamento evocato e voluto da uomini e donne probi, gli onesti Robespierre che hanno voluto ribaltare - la ghigliottina è da un pezzo démodé - la società italiana e non solo. I prodromi erano acuti segnali, squille inascoltate dagli inetti e stolti e tracotanti politici che avevano detenuto un potere tanto fragile quanto cieco. Era il colosso dai piedi d'argilla e abbatterlo è stato un gioco il cui esito era scontato. Le sinistra italiana, le forze moderate - come del resto in larga parte del globo - si sono sbriciolate sotto il calpestio degli arrabbiati, indignati, spaventati, immiseriti borghesi e non. L'onda d'urto è stata feroce e ha lacerato un tessuto sociale falsamente coeso.  E qui è stato commesso l'errore più grossolano da parte dei perdenti: non aver diagnosticato in tempo il male non oscuro, al contrario lampante, che affliggeva la gran parte dell'elettorato attivo. Rabbie e paure, paure e rabbie, antiche come le favole di Esopo, come i miti greci. La collera dei più per l'assenza di certezze in un futuro imminente; l'assenza di lavoro per la stragrande maggioranza dei giovani; la sensazione sgomentante di essere, in ogni caso, fregati dai Poteri. A questa collera, a questa indignazione, si è aggiunta la paura viscerale dell'estraneo, dell'altro che arriva da fuori e pretende anche lui quello che non c'è - la sensazione, reale o no, è questa -  un lavoro, una casa, il riconoscimento di essere cittadino.
Chi ha vinto, ha vinto facilmente, perché ha ascoltato la rabbia e la paura e ne ha tratto quello che gli premeva: il voto.
Sono trascorsi otto mesi da quel 4 marzo e le discussioni, i dibattiti, le liti, le risse sono all'ordine del giorno, così come gli annunci enfatici e ribaldi di chi sta al Governo. Io osservo, ho l'anima a pezzi, non mi riconosco nella gente che mi circonda, non mi riconosco e non riconosco quest' Italia confusa e aspra e quest'Europa dilaniata: oltreoceano qualcuno si frega le mani e aspetta lo smembramento.
La mia coscienza resta immune però: so che il mondo non avrà speranze se continuerà a non vedere i bambini delle guerre, i diseredati delle metropoli, gli ultimi sotto i cartoni, gli esodi che ancora ci spettano. E se non ascolterà l'urlo selvaggio della Natura, anch'essa seviziata e stuprata in una ormai vecchia guerra.
In quest'anno difficilissimo, ad occhi aperti e asciutti - perché il pianto non basta più - ho visto morire quarantatré persone nella tragedia di Genova e l'incuria indifferente di alcuni è la mano assassina; ho visto la morte dei disperati che nessuno vuole e ho visto la loro umiliazione in quella carovana di esseri umani verso gli USA; ho visto milioni di larici e di abeti sradicati, strappati, uccisi dalla furia del clima pazzo e pazzo lo abbiamo reso noi. Ho visto ogni giorno volti segnati dalla fame e dalla miseria;  ho ascoltato, ogni giorno, grida di dolore. E non sono diventati un'abitudine, sono la mia lacerazione con questo tempo infelice.
Un'ultima cosa ricorderò di questo anno. Il mio cambiamento. Non sarò mai più la stessa, una parte di me è morta ed era una parte vivace e forte, quella che credeva nell'esistenza - nonostante parecchi segnali contrastanti - quella che voleva credere nella giustizia. Ma quando questa si dimostra, nelle mani di alcuni, una sciatta attività di  metodi coercitivi, punitivi, senza che si sia usato il discrimine tra bene e male, tra equo e iniquo, allora il mio disprezzo è senza appello. Non è ammesso sbagliare sulla vita degli innocenti, non è ammesso rubargli la dignità. E di questo parlerò in seguito, non ora: a tempo debito. Oh! Se ne parlerò!


Edvar Munch "Le vampire"  1893 - 94

sabato 10 novembre 2018

Quelle parole ritrovate.

Ho ritrovato queste mie parole che scrissi dopo un'escursione incosciente sull'Alpe di Siusi, nel febbraio del 1990. Da pochi anni mi cimentavo nello sci di fondo - io che sono negatissima da sempre per qualunque attività sportiva - e quella mia nuova e inattesa follia  nasceva esclusivamente dall'amore per quei luoghi, di maestosa bellezza. Quei luoghi, quei boschi, quelle foreste. Quegli alberi così orgogliosi, così lanciati al cielo, così eterni. Allora credevo che lo fossero, ma non pensavo alla violenza allora. Alla nostra violenza. No, non a quella del clima. Noi lo abbiamo reso folle e violento, con i nostri comportamenti dissennati, con la nostra indifferenza che perdura, con il nostro egocentrismo suicida. 


Alpe di Siusi ‘90

Gli alberi hanno capelli bianchi
sulla testa aguzza,
come vecchi ardimentosi
lungo i sentieri molli
corrono accanto ai tralicci d’acciaio.
Dovrebbe essere tutt’intorno
muto il paesaggio
mentre scivolo
verso la valle nascosta.
Dovrei essere sola e perduta
mi riparerò dalla veloce sera
sussurro al mio spavento.
Mi riparerò sotto a  quel fienile
d’estate vivo d’erbe e di braccia.
Dovrei essere sola e perduta
ma un uccello
un corvo forse
canta nel fremito della neve
 canta dal bosco di larici,
A dispetto di me,
a dispetto dell’uomo
che sale con la funivia.


Alfred Sisley "La nevicata" 1880

venerdì 2 novembre 2018

Oggi così.

I nostri amori scomparsi sono il nostro passato. Ma spesso restano ancora, vivono, in qualche misterioso modo, con noi, partecipi delle nostre vite. Per me è così e mi conforta, mi rasserena. Spiana le mie rughe, del volto e dell'anima.


E non so se avverrà nei Campi Elisi
o in qualche paradiso di frutti e fiori
circonfuso come in una miniatura gotica
O forse in giro per le stratosfere fredde
che avvolgono le nuvole sulle città
O ancora più in alto, vicino agli astri
rotolanti per assaporare con voi
quell’eternità di stelle sospese.

Sono qui a calpestare terra
a macinare giorni e notti fragili
come farfalle racchiuse
nel mio pugno
Sono qui ad aspettare il calar
dell’ombra dentro agli occhi
in un vaneggiare
di bisbigli e sospiri
nell’estenuante  mio sonno
che abitate nascosti
tra tende bianche svolazzanti
dietro porte serrate
e ingombre stanze
giù giù  precipitando
sul fondo di quelle scale
vorticose che soffocano
nell’oscuro vuoto.
So che siete qui, lo so:
non mi ingannerete oltre.
Per questo oggi
non mi sono chinata
alle lapidi muschiose,
al contatto della mano
sulla pietra morta.
Ho scelto di rallegrarvi
qui con me, staremo insieme.
E ho compiuto piccole offerte votive
vasi di fiori rosa e lilla
dal lungo stelo elegante,
alcuni più pomposi
altri più modesti:
li sceglierete voi quelli
che più vi somigliano.
Questo è ciò che  vi porgo
miei amati volti in bianco e nero,
così giovani, così ridenti per sempre.
Questo è il mio sempre.


Vincent Van Gogh  "Vaso di zenzero con crisantemi"  1886






giovedì 25 ottobre 2018

Non ho voce.

Poi viene il tempo in cui la voce manca. Le parole reiterate tante volte spasimano in gola. Ma è tardi, è sempre più fondo il silenzio.



Non ho voce
non ho niente da dire
a questo specchio assolato
di luce falsa
Scorgo la mia vecchiaia
che vorrebbe essere allegra
come è giusto alle teste
bianche e stanche che sia data
l’allegria di un giorno in più
rispetto alle paure del domani vicino
così vicino da innervosirmi sempre
da sgomentarmi sempre
di notte frugando nei sogni
senza una fine decente
e nei giorni senza porte che sbattono,
s’aprono e poi si chiudono sui volti
di ragazzi e ragazze
impazienti di vivere le loro giornate
di necessità volatili impegnate.
La mia faccia allo specchio
è una smorfia senza fortuna
e la mia voce si perde nell’angolo
dell’ombra che sta
a ridermi dietro la porta
della camera vuota.
Non parlo più sono un’estranea
conosciuta e sbiadita
allo specchio degli altri,
il mio riflesso non sono io.


Foto di Mario De Biasi (1923-2013)

martedì 9 ottobre 2018

Un lumicino.

Eccoti, ottobre, mese da sempre atteso da me con apprensione perché mi parevano i giorni di un cambio di marcia, via dai fumanti calori estivi e dalle veglie sudate. Verso una luminosità aggraziata, scivolante sulle cose, insinuante nelle stanze una morbidezza di colori e di odori. E invece non ti avverto, no, non così. C'è una plumbeo, raggricciante pulviscolo che ottenebra la visione, gli occhi  sono affetti da una cataratta inviolabile. Lo ingoiamo questo pulviscolo, è diventato pane.
A volte avverto la demenza senescente dei nostri cervelli, in fondo siamo diventati un popolo sterile (qualche ratto, dal proprio buco, mastica le sue spiegazioni, a tal proposito) la gioventù scappa e restiamo a dibatterci, contorcendoci nelle maglie infette delle nostre collere, del nostro scontento. Come se non ne fossimo noi stessi gli artefici, i principali indiziati.
Andiamo, sbandando e sbandierando una fede vecchia  nel passo deciso dell'Uomo forte e ci approssimiamo al baratro. Niente ci fermerà, dovremo precipitare, il dramma si compirà come si conviene, come si è voluto.
Non ho consolazioni, non ho amuleti, non ho sortilegi da invocare. Non mi è di alcun conforto sapere che non siamo soli, che tutto il mondo o quasi sta mutando pelle (è la Storia dell'umanità che lo esige? E non siamo forse noi che la costruiamo, la Storia?).
M'è rimasto solo un lumicino, un moccolo di cera, che fiocamente si riverbera sui prossimi mesi. Io farò la mia parte, lo terrò acceso, mi adopererò che non si spenga. E facciamolo, facciamolo allora, non lasciamo che si estingua questo barlume. Di ragione, di umanità consapevole dei propri errori, ma non marginalizzata al ruolo di spettatrice. Noi siamo gli attori di questo canovaccio, non abbiamo bisogno del Grande Regista.


Pieter Claesz "Natura morta con candela accesa" 1627

sabato 29 settembre 2018

Il disprezzo e l'onestà.

Stupefacente la nequizia di alcune persone, il dissolvimento d'ogni forma di concetto etico, di coscienza di sé e della realtà che gravita intorno a loro. Eppure sono "personaggi" hanno ruoli preminenti, preponderano nella società, hanno titoli e carriere di cui menare vanto. Ma quale vanteria, se non quella di una ambizione deflagrante e viziata dalle cortigianerie ricorrenti?
A maggior ragione, queste persone diguazzano liberamente, in totale arbitrio, nelle stagnanti cloache delle città di provincia. Provinciali, al limitare del confine di uno Stato rotto, frammentario, confuso.
La città di provincia ne è l'habitat naturale, il terreno fecondo, il brodo di coltura primordiale. In essa agiscono a piacimento, protetti dentro al ventre ammorbato; nascosti e assimilati agli altri, pretendono il riconoscimento, l'onorevolezza di un potere ottenuto, fors'anche a denti stretti e pane amaro, ma sempre ottenebrante, conservatore dell'immagine che di sé hanno.
La città di provincia è un animale ferito a morte, corre alla decadenza, si disfa in sussulti di vitalità estrema, agonizza nelle periferie e nei vicoli del centro storico, si lorda delle sozzure straripanti sulla pietra dei marciapiedi, sozzumi di cittadini che non sanno di esserlo, furbescamente ignoranti, lesti all'indignata protesta e immobili e muti nello scempio quotidiano delle cartacce oleose di rosticceria, dei multicolorati pacchetti di sigarette, dell'infinito manto secco di cicche, delle medaglie di chewing gum offerte alle basole di lava, delle cacche dei cani non raccolte  da padroni cani. E in mezzo le masse dei turisti ondeggiano, scorrono veloci, un occhio al barocco, un altro alle immondizie.
I caffè sono sempre pieni, i tavoli pullulano di volti e voci, richiami e risate, ci si conosce tutti. Seduti all'ora dell'aperitivo, li trovi lì, anche loro, i personaggi. Lecitamente dediti alla ricreazione d'un calice di vino contorno annesso, pronti al selfie amichevole, sorridente, da postare sull'iphone: se non fosse per quella vorace voglia di esserci, di mostrarsi, piccoli plenipotenziari della città dolente. Se non fosse che maneggiano il loro potere come una clava inerte, sorretta da una mano obliqua, da un arto che non controllano. Perché nulla c'è in loro, la coscienza evaporata assieme al vino rosso. Epperò sono consapevoli di esercitare un potere, malignamente e maldestramente esposto.
Fuggire allora? Abbandonare la città molle di antica assuefazione?
Sarebbe meglio. Nell'attesa di una scelta, continuare a non chinare la testa, a non piegare la schiena: nell'attesa il disprezzo e l'onestà di essere quello che si è sempre stati.

Eduard Costantini "Donne al bar"

giovedì 20 settembre 2018

Il sale buono.

Silenzio e pensieri: un settembre come si conviene per tradizione e per aspirazione naturale. L'autunno è alle porte e il frastorno dell'estate, le notti inquiete, i ronzii e i cicalecci della casa e della coscienza si smorzano. Non resta che la pausa morbida, delle pacate riflessioni, fino all'accogliente freddo. Perché a me il caldo mi estingue e mi ripudia, il freddo mi accoglie ed è da sempre così.
Rifletto sulla situazione che viviamo tutti: in Europa o no, migranti sì, migranti niente, via dall' accoglierli (che bella avvolgente parola!),  manovra economica che scappa dalle mani e dalle intenzioni. Parole, quante, promesse, quante. Paure e suggestioni. E concretezza di mosche che ronzano, ronzano.
Non mi avveleno di politica, resto alla finestra, guardo solo ai giovani, a quelli sempre, che se possono scappano e, se non possono, s'adeguano e aspettano.
Ma penso, ne ho tutto il tempo tra una bega personale che mi reca solo fastidio e noia e un'altra che poi si risolve e si ride, penso alle persone. Penso ai loro sorrisi e ai volti ispirati dalla buona creanza, da quello che passa, a detta del pubblico, per un bel carattere. Penso alle persone gentili, così gentili che questa loro garbatezza di modi e di aspetto e di gesti, si potrebbe affettare come uno squisito prosciutto montano: a mano e con un coltello affilato. Penso ai commenti che le loro labbra teneramente schiuse esalano e sono sempre commenti pertinenti a quello che ci si aspetta, a quello che si vuole da loro. Persone attentissime, non solo gentili, a dimostrare la loro gratitudine alle gratificazioni di un cenno, di un breve encomio, di una condiscendenza en passant. Persone di cuore, virtuale s'intende, che tanto non si spreca sangue vero nel pomparlo. Di cuor gentile dunque. Tranne quando, eh sì! tranne quando non gli si sfiora il nervo scoperto della vanità, dell'egocentrismo, della permalosa supponenza. Allora il cambiamento è repentino, Fregoli gli avrebbe fatto un baffo. La gentilezza si tramuta, si trasfigura col paludato abito della circospezione, la gentilezza delle parole trasuda del veleno dell'ipocrisia. Finalmente. Un tratto peculiare di queste persone è la totale assenza del senso dell'ironia, per non dire poi dell'autoironia: tipico esempio è il loro sentirsi sempre e comunque chiamati in causa, tirati dentro a un argomento. Come se tutto il circostante orbitasse intorno a loro, come se ne fossero il materno ombelico.
Ecco, rifletto e metto dubbi e rimpianti a tacere.
In fondo, in fondo l'ho sempre saputo: mai confidare nelle persone che non possiedono il sale buono dell'ironia, diffidarne sempre. Anche se gentilissime ti sorridono.

 Federico Zandomeneghi, Femme au miroir, 1898

giovedì 30 agosto 2018

La bellezza - e la forza - del chiaroscuro.

Nel corso della vita si commettono molti errori di valutazione. Dei fatti e delle persone. Ci si dibatte in un incessante annaspare alla ricerca di una verità, ben sapendo che non potrà mai essere quell'assoluta nitidezza di pensiero alla quale aspireremmo. Sarà, alla fine, la nostra verità. Sarà il ritratto a mezzobusto delle persone, lo scorcio di un evento, il flash di un incontro a metà strada.
Ci si accorge di avere sbagliato quasi sempre troppo tardi,  quando l'impulso illogico e l'istinto di conservazione hanno preso il sopravvento sul placido e sereno giudizio. Non si è mai abbastanza adulti da riuscire a sotterrare del tutto la conturbante, attraente e fallace impetuosità della giovinezza. Ne so qualcosa, in questi giorni di riflessiva solitudine parzialmente e lietamente interrotta da una telefonata con una donna che ha il mio medesimo sentimento della vita e delle persone. Sentimento che mi trascina, spesso, in un gorgo di dubbi e di malinconici rimpianti. Ma in egual modo anche mi sprona alla cernita, al vaglio  di quello che cerco e desidero nell'amicizia (come anche nell'amore, in fondo).
E quello che vorrei, anzi pretendo, nell'amicizia è la spontaneità dei gesti, delle parole, degli intenti. Ripuliti d'ogni traccia di gelosie, piccole invidie, diffidenze, permaloso puntiglio, stupide rivalse. Tutti stereotipi vecchi come il cucco nei rapporti umani, nefasti all'amicizia perché la deriva e lo sconfinamento nella palude infetta dell'ipocrisia sono a due passi. Mi viene da definire queste amicizie, taroccate e inquinate, come borderline, pronte a sfidare il precipizio e a giacervi.

Abbiamo esordito io e questa bella, buona amica, con il confidarci le recenti reciproche delusioni. Forse ci aspettiamo dagli altri quello che non è una ricchezza per loro, forse ci aspettavamo l'arricchimento di una scoperta e invece abbiamo ottenuto la polvere di un giacimento esaurito. Abbiamo parlato a lungo, con leggerezza, prendendoci un po' in giro per le nostre piccole manie e fobie, ridendo tanto e con gusto, quel gusto tondo, succoso, fecondo che è del ridere delle stesse cose.
E quando abbiamo chiuso, il peso dei miei giudizi affrettati m'è crollato addosso. Tutto è relativo, tutto è marginale.
Ammetto di avere sbagliato, nei giorni appena trascorsi, nel giudicare chi m'era inviso - e solo momentaneamente - per la puerilità di una frase, di un commento, di un post su Facebook, senza ascoltare le molteplici ragioni del cuore e del cervello. Che dopo - appunto -  mi hanno ricordato la sincerità (quanto fastidio può procurarci, vero?) l'attaccamento caparbio e onesto ai propri valori (che è anche il mio), la bizzarra sensibilità e la inaspettata, repentina gentilezza, concrete e tangibili. Chiaroscuri, ombre e luci che ci connotano come esseri umani. E migliori di coloro che pretendono d'essere a tutto tondo, rigorosamente impettitii e zelanti, sorridenti e gravi, senza un filo d'autoironia, senza  possedere la bellezza - e la forza - del dubbio.


Michelangelo Merisi " Il bacio di Giuda " 1602

domenica 19 agosto 2018

Sospesa

Irrazionali, senza risposte sono i sogni. Ancora più le immagini notturne che definiamo incubi, quelle che prendono corpo nelle veglie alterne ai brevi sonni accaldati dell'estate. E anche la realtà si trascolora, si muta, diventa un incubo dal quale non v'è risveglio.


Sospesa

Sospesa accanto a voi
torco le caviglie sulle pietre
e vi corro dietro 
mille faville s’alzano in volo 
un muro di fuoco spento
Là al fondo del tempo fermato 
c’è il mare
che nessuno vedrà ribollire 
di vita asciugato
Perché piovono sassi dal cielo
e lacrime d’acqua 
nel lavacro di fango.
Neri corvi frullano e s’abbattono 
e ghermiscono
S’afferrano e strappano
laboriosamente assidui
ferocemente becchini 
delle sepolture.
Calerà la sera, calerà 
la silenziosa ombra
Resterà un frullare d’ali scomposto
Là in fondo ci sarà il mare 
del  nostro ferragosto.
Sospesa vi inseguo ancora 
e voi parlate
I sassi rotolano sotto i piedi scalzi
Vi chiamo ancora 
e poi non c’è altro.


John Everett Millais. "Ophelia" 1851 - 52


venerdì 10 agosto 2018

Verso una luce nuova.

Vorremmo riprenderlo quel tempo. Vorremmo riacciuffare tutto lo smarrimento doloroso delle assenze, rotolare con  quello, affacciarci alla soglia del passato e salutare chi non c'è. Vorremmo riprendere la vita nelle mani, stringerla forte perché non sfugga.
I miei sogni si svolgono quasi sempre in cielo: di notte, blu e luci sotto e sfreccianti saette accanto. Sogno di essere appesa al cielo assieme agli amori miei, le mie donne, i miei ragazzi, sospinti dal vento lungo un filo che non è invisibile, è una treccia lucente bianca. Chagall non mi ha influenzata, mi sono trovata io nei suoi colori. Ero un'adolescente e dormivo nel cielo di notte e ho continuato a farlo. Ecco perché le stelle cadenti di queste notti non sono una novità, le conosco tutte, da molto.
Però ogni anno ne voglio una, di stella, e non arriva mai.
Voglio una stella tutta mia, voglio la mia stella. Che sia buona con le persone che amo; che sia gentile con chi soffre; che sia generosa con chi ha bisogno. Voglio una stella che pulisca il cielo con il suo chiarore d'innocente bellezza, che illumini l'oscurità di chi non riesce a vedere. 
Questa notte voglio una stella da regalare.
Poi mi perderò dentro alle onde scure, prive d'ogni suono, senza vibrazioni.
Non importa, è tempo di volare via verso una luce nuova.


mercoledì 1 agosto 2018

Me molesta..

Qualche giorno addietro ho detto a un'amica che sentivo la necessità di scrivere , lo faccio di frequente, parlo tra me et moi, parlo a chi ha piacere e cura di prestarmi la propria attenzione.
Sono giorni di fastidiosi , nauseabondi incontri, l'atmosfera è tutta satura di velenose scorie, una poltiglia purulenta di afa e di tossiche parole a stillicidio e a raffica di mitraglia, su queste pagine infette, sui media. La tossina è, come spesso accade, quella rilasciata dall'infestante erba dell'ipocrisia. A tutti i livelli, in tutte le bocche o quasi. C'è la volontà malefica e imperversante di negare l'evidente declino della civiltà fin qui, faticosamente e non del tutto compiutamente, acquisita. Negare che in questo Paese, in questo momento storico sciaguratissimo, vi siano segnali allarmanti di xenofobia, è roba da pornografi che si battono il petto in confessione, di mercanti che fanno la cresta a clienti e allo Stato e piagnucolano al Tempio. Menzogne alle quali i più aderiscono con complice esaltazione pur sapendo che il vero sta altrove. Io leggo e ascolto e il fastidio mi cresce dentro, mi brulica addosso, tanto da non riuscire a essere la donna spontaneamente ironica che sono sempre stata. Il fastidio cresce, aumenta, dilaga dentro di me, mi annienta. E così si acuiscono le intuizioni, si decuplicano le antenne sensitive e mi allontano quando la molestia diventa intollerabile.
C'è un aspetto, in particolare, in tutto questo movimento di pensieri e parole che mi disgusta ulteriormente ed è l'atteggiamento tenuto nei confronti dell'attualità da alcune " perle" del web. In particolare da quelli/e che si definiscono o vengono acclamati quali poeti. E magari, chissà, lo sono. Ma il loro dialogare, sovente quotidiano! per versi e per palpiti  asetticamente roseo, è rivolto all'estremizzazione dell'io, anche se appunto palpitante d'amore e di bellezza e di platonici oppure carnalissimi slanci. In passato, talvolta, sono calati dall'Empireo amoroso giù, ad aggirarsi negli angiporti dei miserabili, ma era sincera commozione? Era partecipazione del cuore e dell'anima? Perché chi scrive e in special modo, chi ha un seguito di fan, di estimatori, di adoratori ben cospicuo, dovrebbe avvertire l'imperativo morale di levare la propria voce, di parlare, di gridare il proprio sdegno. Forse non è facile, forse si dispiacerebbe a qualcuno, forse gli adoratori vogliono esattamente quello che leggono, non altro, non in quelle pagine, non da quella voce vogliono altre parole. Peccato. A mio avviso ( mi sbaglierò, sì) la loro credibilità sbiadisce, s'accuccia scodinzolante e fedele alle attese.
Io no, io leggo le parole dello sdegno e della pietà; altro, oggi, mi annoia. O, come si dice in un idioma che mi è sempre più caro, me molesta.

Frida Khalo "Diegp nella mia mente" 1943

venerdì 6 luglio 2018

Ma anche io.

Avevo scelto. Avevo scelto di tenere per me le parole che mi erano divenute urgenti ed ero orgogliosa della mia scelta. Poi, oggi, mi arrivano altre parole. Di chi si dice tenace, di chi rivendica il proprio giudizio critico senza tempeste emotive, senza tiri al bersaglio. Con civile obbedienza al proprio ruolo di intellettuale, di nocchiero delle altrui opinioni. E dietro uno spontaneo coro di assensi. Anche il mio. Perché ognuno è in diritto di esprimersi come vuole, perché ognuno è libero di mettersi  come gli piace nei confronti del mondo e della società e quindi dei fatti, assumendo la posizione che più gli viene comoda.
Ma anche io, a maggior ragione io che non sposto niente, nessun pensiero, nessuna riflessione. Se non le mie, se non le mie ragioni che appartengono solo al mio cuore.

Per vivere ci vuole molto poco
si deve tirare il respiro
gonfiare i polmoni d’aria
Per camminare senza squarciarsi
i piedi macinati
scarpe ci vogliono, scarpe
anche di tela e gomma
Per allontanare il sole a picco
basterà un cappello
di cotone, di paglia
con la visiera se si è ragazzi
che amano lo sport
Se si ha sete ci vuole l’acqua
la birra e il vino e le altre
bevande rinfrescanti
sono un capriccio
di cui possiamo fare a meno
Se c’è fame basterà del pane
il riso e il latte per i più piccoli
le proteine verranno dopo
se ci sarà fortuna
se ci sarà un dopo
avremo anche la frutta della terra.
E per dormire?
Ci vorrebbe un tetto
 una capanna, un letto
di erba o di piume
non importa purché la schiena
si stenda tutta e ci sia il riposo.
Il lavoro dei campi delle zolle
rivoltate con le mani
non spaventa
la luna sorge enorme e
mette fine alla fatica-
Sta in quelle baracche la paura
Sta nel grido di dolore
delle nostre donne
Sta negli occhi chiusi dell’aguzzino.
In fondo poi c’è il mare.
che è felice madre
per chi è forte e sa nuotare-
Scintilla e brulica di ombre
sopra e sotto
e siamo ora stretti
abbracciando la fune che ci lega
“Il viaggio è lungo”  ci dice qualcuno
e la terra invece è di fronte
e si respira l’odore della morte.
Un’onda grande, un flusso bianco
nelle orbite aperte sbarrate
a guardare un’ultima volta
quell’infinito azzurro.


Vittorio Matteo Corcos  "Sogni" 1896 ca.





sabato 30 giugno 2018

Il gioco perfetto.

Sarebbe molto più conveniente fingere. Basterebbe stornare lo sguardo, azzerare l'udito, serrare la bocca. Insomma il gioco vecchio delle tre scimmie che, da piccola, mi impaurivano, quasi un presentimento del loro significato. Non ci riesco, non fa per me quel gioco.
Tutto questo cigolare di mandibole in esplosioni di parole e di sorrisi schiacciati sulla faccia dei politici europei è rivoltante, di un'ipocrisia sbandierata sulle nostre teste di gregari senza possibilità di appello. I popoli, le genti, gli elettori servono al consenso, rappresentano lo stigma del potere. E non se ne accorgono neanche, non più, partecipando, chi ansiosamente, chi furiosamente alla furfantesca pretesa di chi governa. La furfantesca pretesa di fare il bene dei propri cittadini che chi tiene il timone ha pasciuto d'odio, alimentando, foraggiandone le angosce, i dubbi, le deluse aspettative. Certo, il popolo non è innocente, no. Il popolo non ha giustificazioni - non vi sono giustificazioni alla morte della pietà collettiva, del senso dell'umano - il popolo s'è scelto chi lo rappresenta, quello che ne sa titillare, mai così bene -  se torno al passato, a ottant'anni fa e anche prima, vedo solo l'orrore di una nazione smarrita e schiacciata da scelte terribili e non voglio, non posso immaginarne un remake - gli istinti, le paure, le tensioni.
Con sofferenza prendo atto che l'Europa sbanda, tentenna disorientata. Con sofferenza prendo atto che non esistono parole misericordiose, né soprattutto gesti di misericordia e siamo tutti cristiani. Con sofferenza mi accorgo che anche ai bambini è negato l'amorevolezza di un segno. Allora tutto s'è risolto, tutto è concluso. Anche il nostro essere umani e sì adesso possiamo giocare alle tre scimmiette, è il gioco perfetto per noi.

David Teniers il Giovane (1610-1690) "Il banchetto delle scimmie"

venerdì 22 giugno 2018

Quel deserto sabbioso dentro di me.

Ho qualche difficoltà nell'affrontare questo rovello, questo mulinello di stoppie che rotola dentro di me. E sì in certi giorni avverto un deserto in me e fuori di me, una sterminata landa sabbiosa percorsa e percossa dal vento che strappa sussulti agli scarni cespugli che tentano di resistergli. Mi accorgo con sbalordimento di non capire più niente o pochissimo delle persone, di non riuscire più a giustificarne gli atteggiamenti, le parole. Un sottile minaccioso male mi insidia, insidia la mia consuetudine a perdonare, a scoprire, tra la gramigna, anche la buona erba. Mi è stato sempre istintivo questo modo di pormi con gli altri. Poi è scattato qualcosa. E so di cosa si tratta, ma per cautelare altri non posso dire di più.So che, però, qualcosa si è spezzato, e per sempre. Non guarderò mai più con fiducia agli altri, non gliela darò più come un dono senza attese. Chi commette il male, chi commette ingiustizie - a maggior ragione se chi si macchia di ingiustizia è chi detiene un potere -  non merita nessun perdono, né una pur minima parvenza di comprensione. Solo disprezzo.
Questo mio nuovo sentire che mi rende profondamente triste e inquieta, anche se rabbiosamente triste e inquieta, si decuplica e si alimenta al desco ben imbandito dei social: le ultime pietanza servite sono troppo appetitose. L'ormai annosa questione - perché non è di ieri o dell'altro ieri - dei migranti, si rimpingua quotidianamente di comunicati e proclami nazionali e internazionali a cui si aggiunge il codazzo dei facinorosi commentatori del web, in grandissima parte schierati con il pensiero dominante che detiene il potere politico. E a rimpolpare il menù, l'altra questione, meno annosa - ma anch'essa mica si scherza! comincia ad avere una certa età - è quella di Saviano.
Scorta sì o scorta no. Chi legge i miei modesti post, i miei umili pensieri in proposito, conosce bene le mie posizioni, da sempre. Io sto con il diritto alla vita, in tutti e due i casi, in tutte e due le questioni. E sono aperta alla discussione, al confronto, alla necessità anche di ricercare delle soluzioni che possano essere accettate da tutti senza però che ci siano martiri o vittime. Imprescindibile il diritto alla vita, per chiunque, a una vita che non sia privazione di qualsiasi libertà giusta e umana.
Ma non è così che ci si rapporta nei social, no. In questi, ormai annosi anch'essi, campi di battaglia, si assiste a una recidivante volontà di sopprimere l'altro, il nemico. Così c'è chi si insinua e offende apertamente; chi si insinua ed è insinuante nel voler convincere dell'inconvincibile; chi urla su fondi policromi e minaccia. Un florilegio di eleganza e di soavità a cui è quasi impossibile sottrarsi: la pazienza se n'è andata, è fuggita via assieme alla civiltà e all'umanità.
C'è ancora qualcuno, a dire il vero, che se ne sta impietrito, arroccato alle sue certezze e lo invidio, come se la storia gli scivolasse addosso, come se non gli toccasse di vivere in questa società: e resiste serafico e smarrito nelle pagine di un qualche bel libro.
Ci sono poi quelli che si allineano, ma piano piano. Pianissimo, cercano di non fare rumore, se potessero si farebbero sottili come capelli d'angelo o si appiattirebbero nell'ombra, sempre più allineati, come tante stupite Pantere Rosa. In agguato, pronte poi al momento giusto a venire fuori dalle truppe.
Ma quelli (quella?) che davvero mi divertono - e lo dico sul serio e scusate il gioco di parole -  sono i "saltellanti" ovverosia coloro che, con grazia sbarazzina, saltano da un post pro a un altro contro, commentando in calce sempre col tono pertinente al post. Insomma è sempre utile dare un colpetto al cerchio e uno, magari più forte, alla botte.
E io rimango di stucco, mi incavolo, rido, ridacchio, mi intristisco, posto fiori ogni tanto, parlo di giorni normali, di cose che accadono a tutti noi. Per non sentire, per non ascoltare, per non leggere. E intanto cresce quel deserto, prende sempre più spazio e il vento soffia impetuoso e caldo dentro di me.

giovedì 14 giugno 2018

Chiacchiere e distintivo.

Quello che mi rende furiosamente triste è il divincolarsi della coscienza dei molti. Un esercizio acrobatico di eccelso livello, una gareggiare degno di atleti medaglie d'oro, un districarsi nella giungla della sintassi filosofica, sociopoliticheggiante disperatamente arduo, alla ricerca del distintivo, del meritato consenso. E questo avviene non esclusivamente da parte dei politici che ci governano - è il loro sporco porco mestiere - ma da parte di chi sente come un diritto e un dovere di esplicitare il proprio sagace bagaglio culturale e politico e sociale e intellettuale, E così ci inondano di opinioni, di teorie tratte da illustri studi di eccellentissimi studiosi ed è tutto un bel fiorire estivo di statistiche, di dati, di percentuali. Una guerra con le tastiere come trombette. Una guerra combattuta da un microfono, scagliandosi missili che hanno il solo scopo di incendiare i cervelli delle masse.  Le masse che si infoltiscono sempre più, si ingrossano, si allineano. Perché il nemico è un obiettivo facile e anche conveniente da colpire. "Siamo onesti, via! Ma a chi piacciono questi disgraziati portatori di caos e di disordini?" In fondo è stata questa la domanda rivolta alle masse. E la reazione dal chiuso dei propri agi è stata quasi universale. Ancora una volta il timore che i muri delle nostre case possano essere sfiorati, intaccati da chi ci è straniero, ha vinto. E tornano così parole come confini, limiti, spazi, territori, regioni, patria. Patria sì, perché patria è quella piccola fetta di terra che quotidianamente calpesti. Che è anche vero, ma è anche vero il contrario. Se quella piccola fetta di terra non ti dà certezze, non ti offre la vita, il futuro. Se quella stessa vita che hai, te la toglie, a te e ai tuoi figli.
Ma non importa, non sono cose che ci riguardano. In fin dei conti tutto questo agitarsi, questo accusarsi reciprocamente ha tutta l'aria di essere "solo chiacchiere e distintivo". Con unna contraddizione fondamentale rispetto al film: in quel bellissimo film, il riferimento era all'eroe buono; e invece qui di eroi buoni non ce n'è neanche uno sputo. 
Continuiamo a vivere nei nostri confini, nelle nostre case, chiediamo protezione, armiamoci di tappi per le orecchie, spegniamo gli occhi e viviamo come sappiamo fare, nell'unico modo che ci è rimasto. Disumanamente.
Agli altri ci penserà il mare, il Mare Monstrum. E anche gli illuminati, eccelsi politici che ci governano, noi masse del continente europeo di oggi.

venerdì 8 giugno 2018

Un cuore che sa.

Giorni senza riti particolari, senza manovre da inventare, senza emozioni da afferrare. Giorni di riflessivo silenzio e di scrittura. Di revisione, di rivisitazioni. Senza letture per non essere fuorviata, perché gli amati libri, quando sono amati, parlano per noi, in questo caso parlerebbero per me.
Fuori c'è un mondo irriconoscibile, non sono in grado di comprenderlo, forse non  voglio neanche comprendere e sapere. So quello che la vita m'ha dato e mi basta, mi consolano il carico dei miei errori e il cesto fiorito delle mie allegrie. Che poi sono i miei figli, i ragazzi e i bambini. Rifuggo dagli altri, scelgo, in questi giorni, la solitudine che non mi è nuova, una fedele amica ritrovata e che bella faccia luminosa che ha. Ha quella chiarità nitida di certe albe primaverili e un identico tacere.
Non ricerco la compagnia, mi circondo della necessaria umanità. I vivi come me che hanno molto vissuto non possiedono più alcun incanto, solo una stanca e rabbiosa accettazione di quello che si è diventati, senza averne piacere. Qualche eccezione sì, qualche sorriso di complicità.
Scrivo sotto dettatura. Mi è stato chiesto di raccontare di una famiglia, la mia, mi è stato chiesto con forza, quasi fosse un obbligo e ho scritto e scrivo.
Erano dentro tutti, erano in me e non li ascoltavo più e oggi parlano e c'è un rumore continuo, inafferrabile da altri, ci sono luci e oscurità che si mescolano in un incessante chiaroscuro. Scrivo, dialogo con le mie donne, mi diverto, piango.

Di notte, nel sibilo degli alberi afferrati dal vento, arrivano. E c'è l'alta figura di nonna e la mamma normanna che si nascondono nelle stanze buie della casa. Quella casa sconosciuta e spaventosa che, da anni, mi intrappola nei sogni.
Quella casa che è piena di vento e di onde furiose, ritmiche come i battiti accelerati del mio cuore. Che sa di non aver fatto abbastanza.


Vilhelm Hammershøi (1864 - 1916)

venerdì 1 giugno 2018

Un senso di solitudine.

Oggi si è concluso un lungo trimestre di attese. La Nazione ha un Governo. E non dico altro, non mi voglio invischiare in analisi e aspettative, giudizi, esegesi di forma (però qualcosina sulla postura elegante di Salvini ... e va bene! meglio tacere) e di sostanza. Ce ne saranno tantissime illuminanti e io non mi cimento con chi ha più strumenti di me. Certo, chi mi conosce, comprenderà bene la mia disillusa e attonita reazione, ma durano da un pezzo questa disillusione e questo sbigottimento, non sono una novità.
Tutt'al più si aggiungono questi due sentimenti, si sovrappongono, si sommano ad altri, più intimi e personali. Da qui il senso di una sconfinata solitudine, di una lacerazione tra me e la realtà che mi circonda e, in alcuni casi, tra me e le persone. Come se avessi subìto uno scollamento aggressivo, uno strappo furioso delle mie certezze.
E al loro posto si fossero insediati neonati stati d'animo. Di perdita, di smarrimento, di sconfitta anche.
Per anni ho creduto fermamente nella bellezza forte, tenace dell'essere se stessi, del non lasciarsi spostare dal proprio percorso, dalla fedeltà a quello che si è, che si è stati, per intensa convinzione, per educazione, per cultura. Un radicamento al territorio degli affetti, degli studi compiuti, delle esperienze lavorative, sociali, un radicamento dovuto anche ai libri letti e amati. E invece, no. Mi rendo conto che non è così, non per tutti. Ci si lascia abbagliare dal nuovo, ci si lascia avviluppare dai sorrisi e dai gesti, dalla bonomia che nasconde il cuore d'acciaio ben temprato. Ci si lascia abbindolare dalla gentilezza interessata e non ce ne accorgiamo se non quando non siamo, anche noi, diventati simili, perfettamente simili a chi di quei travestimenti ci è stato falso mentore. Perché, a quel punto non ci piacerà più quello che eravamo e non ci piaceranno gli altri, quelli che sono diversi da noi. Un saccheggio dell'anima e del carattere sottile, senza grandi sofferenze, operato con chirurgica precisione. Il dolore e l'amarezza colgono di sorpresa, in un ricordo, in un gesto improvviso, in un gesto non più usuale. Ma è tardi, il cambiamento è avvenuto. E, in fondo, se dovesse capitare a chi mi è caro, spero che non se ne accorga mai. Rimpianti e rimorsi sarebbero come sale su cicatrici riaperte.

Arturo Nathan "Il passaggio del veliero"  1928

lunedì 28 maggio 2018

La casa arrampicata al cielo.

Meglio tacere, meglio sfuggire alle sollecitazioni dell'oggi. Quando non vi è nulla che possa dare uno stimolo fertile di gioia, di pacata serenità, meglio affondare nel sogno vissuto.


  La casa arrampicata al cielo.


Ho bisogno di dimenticare dove vivo
questa terra di nequizie trionfali 
di uomini bugiardi sulle cattedre
sconquassate.
Di liberarmi dei sipari tarmati
rigonfi di parole e corpi ubriachi
di sé, ho bisogno.
Di sfuggire agli occhi morti della speranza
ai giudizi guasti della bestialità
umana, ho bisogno.
Di lasciare ombre di carezze
larve del passato recente e antico
soffrire, ho bisogno

E non nella luce del mattino
Il telefono squilla i muri sono echi
delle voci che m’afferrano
E non nelle sere ormai estive
Sconfinate aperte sugli alberi
oscillanti di segreti sotto la luna-

Di notte, irrompe nella clausura
del letto, nelle palpebre chiuse
La casa che s’arrampica
al cielo.
Il limone è sempre là fiorito
di zagara graziosa sul minuscolo
terrazzo quadrato sospeso al viale
Il vetro riflette i lampadari dipinti
dal tuo estro
E lo scialle indiano ordinatamente
adagiato come te,
sul divano
E sul tavolo quella pianta dal fiore
strano e giallo
di cui non ricordo il nome,
ritaglia un merletto di sole.
Camminavamo insieme e tu la
tenevi stretta al cuore
Era l’ultimo regalo che ti facevo
A te e alla tua casa arrampicata
Al cielo.



Marc Chagall " La casa blu "  1917 - 20
  



















  






















sabato 19 maggio 2018

Bisogna essere un po' pazzi.


Quell'uomo. Quel fauno con i capelli lunghi e lisci, vibranti d'argento come piccole serpi stese al sole, quel fauno senz' età come impone il Mito, con un lungo impermeabile nero allargato a guisa di paracadute, quella figura alta e seria sfrecciava sulle selci sconnesse, le mani aggrappate al manubrio del monopattino. Mi sfiorò quasi, mentre lo seguivo sbalordita e divertita. E ridevo, ridevo sotto quella pioggia di raggi tiepidi e ripensavo alla signora non giovanissima, come una stella filante sul lungomare alla Barceloneta, sullo skateboard, mentre si faceva spazio tra i ragazzi e le ragazze in muta e tavole da surf , pronti a tastare il mare, ed era acciaio duro il mare, in quel giorno, tagliato dal vento freddo, ma la luce rimbalzava sui volti e vi si stendeva accarezzandoli e vi restava attaccata illuminandoli. E nel Barrio, nelle pietre gentili e antiche, calpestate senza posa dai turisti, la donna imponente e malinconica, il grande seno da soprano  e la voce forte e pura, una cascata di parole note,  "libiamo ne' lieti calici" e una vertigine d'amore e d'orgoglio che mi assale, ma è un attimo.
Poi la piazzetta nascosta, poco frequentata, con la Chiesa su un lato e i muri che hanno nel loro corpo di pietra chiara i segni di morte e non occorre che ci siano cartelli a ricordare, la storia è tutta scritta in quei fori tondi di mitragliatrici. La scoprii quella piazza e quella Chiesa di S. Felipe molti anni fa e fu un colpo al cuore, fu un grido, uno straziante grido di libertà e ci sono tornata e ci tornerò ancora perché è anche questo grido di morte e di libertà. il mio cammino.
E i giovani, ancora i giovani,  tanti, da tutto il mondo. Odore di libertà che si mescola a quello salmastro del mare, sempre presente, anche quando non si vede. I giovani coloratissimi, che non hanno uno stereotipo, uno straccio di moda da seguire, meravigliosi, se ne fregano e si vestono come gli pare. E l'invito a sedersi ai tavoli di un bar, dappertutto disseminati, piccoli e grandi, eleganti e con le sedie scrostate, e ancora gli odori del cibo, a tutte le ore, non importa che sia da gourmet, ci si siede, si mangia, si parla, si parla. Il brusio delle voci che accompagna il cammino, sempre.
E le strade che portano giù al mare, ancora il mare in fondo come una promessa, nel barrio poco frequentato dai turisti, il quartiere, come mi informa ridendo una bella donna, degli artisti, dei radical chic, mi dice e ride. Le strade che portano al mare hanno alberi d' aranci su un lato e piccole deliziose botteghe, librerie, fiorai, e poi si aprono di colpo in piazzette ombrose e lì c'è sempre un luogo di ristoro, un benvenuto di sapori e di musica. Una donna porta in braccio un grosso cane, lei è minuta ma procede svelta e sicura. Si ferma accanto a noi, depone il cane per terra, è molto malato ci dice, parla, racconta il suo dolore e piange, ha un viso segnato e bello, la voce dolce e si asciuga le lacrime e sorride e continua a parlare. Io l'ascolto e so di cosa parla pur non comprendendo le parole. Se non fosse per Altrove, la mia Altrove che mi sussurra, ogni tanto, una breve sintesi. Generosa, si chiama Generosa la donna del cane che sta morendo. Lei e Altrove si scambiano i numeri di telefono. Si allontana dopo averci baciate ed è piccola sotto quel peso. Il sole è calato dietro i platani del viale e il buio si fa veloce e la inghiotte subito.
Il mare soffia il suo profumo verso di noi e io e Altrove gli andiamo incontro, mano nella mano. Domani saremo lontane.
Difficile staccare il cuore da questa città, difficile. E forse bisogna essere un poco pazzi per viverci, ma bisogna essere anche un poco pazzi per lasciarla.

mercoledì 25 aprile 2018

Se guardo fuori

Ho ritrovato queste parole da me scritte qualche anno fa, E mi sono stupita, anche intristita e sul perché in questo caso, io dubbiosa e incerta per fede e per intima essenza, sono al contrario sicurissima: la cognizione dell'inesorabilità di ogni giorno, di ogni data, di ogni avvenimento che ci trascina, brutale, con sé.



Se guardo fuori

Mi inondavo di sole mi cadevano addosso
raggi obliqui
come lance spuntate e accoglienti
mi ci ficcavo dentro
correndo con scarpe che sollevavano
terra di lava nera
Il vestito volava tra le gambe
mi trascinava in un vortice di
fiori spariti dai ricordi
forse rossi o forse  azzurri
Portavo la treccia sulla spalla
era il mio fucile disarmato
che non avrebbe mai sparato
se non scintille al cuore
del mio amante
Ballavano assieme alle bandiere
la treccia e il cuore.
Ero allegra e cantavo
canzoni che non erano mie
erano d' altri uomini d' altre donne
Di tutti i ragazzi e le ragazze che
Avrei voluto incontrare risorti
Dalle mute lapidi.

Se guardo fuori mi viene incontro
la giovane che fui
nel sole a picco resta immobile
sorridendomi tace.
Vorrei che entrasse qui in questa casa
Ma l’ombra è fitta
E io m’oscuro.




Giacomo Balla "Ragazza che corre sul balcone"   1912




mercoledì 18 aprile 2018

Finché esiste

Torno alla memoria. Nella vita di ciascuno di noi tutto è riconducibile a questo oscuro e misterioso intreccio di cellule e altro di cui non si ha certezza, ed è la memoria. L'unico, universale viaggio che a tutti è concesso fare, a ritroso, il capitombolo, così lo chiamo da molto tempo. Tornare indietro, immergersi nel racconto che immagini e suoni e gesti rievocano incessantemente, senza tregua. Un caleidoscopio nella cui confusione cromatica è difficile districarsi, ci si fa strada a fatica, perché a un flash ne sussegue un altro, ancora più vivido, la visione ha contorni più netti. Citare il gioco delle scatole cinesi mi pare ovvio, ma è così: c'è sempre una più grande che ne richiama un'altra o viceversa. Un'alternanza di nuances, sfumature, incisioni, scorticature, che scaraventano il passato, la nostra storia, nel presente. Ci si scopre indifesi, spesso non si è ancora pronti, si è disarmati nell'affrontare quello che è stato, c'è tutta una vita, ci sono tante vite, tutte quelle che abbiamo vissuto e quelle di chi ha condiviso la nostra, le nostre. La vita non è una, piuttosto è sfaccettata, piuttosto è simile all'ovulo fecondato che si scinde in embrioni paralleli, gemellari. Difficile riacchiapparle nei ricordi, sguisciano via, si sovrappongono irridenti e dispettose, tutto è lontano, quasi si fosse perduto in uno spazio siderale spaventosamente ignoto. Sto cercando di riacciuffarlo, il mio passato, ed è un cammino irto di ostacoli, un cammino periglioso. Perché i miei occhi sono cambiati, perché la luce si è smorzata, perché la stanchezza è tanta, si è accumulata in una valigia piena di sassi da tirarsi dietro. Ma ci provo, continuo. Necessariamente, continuo. Forse rivedrò alcuni fatti e non ci sarà il raggio di sole a scaldarli; forse alcuni volti mi appariranno invecchiati, corrotti dal tempo e dalle mie esperienze. Certamente l'innocenza è perduta, ma la memoria, finché esiste, deve essere accudita con cura.


Bartolomé Esteban Murillo, Galiziane alla finestra, 1670, 


lunedì 9 aprile 2018

Inquietanti? Noi.

Mi si faceva notare ieri come sul Corriere venisse dato grande risalto alla vicenda di quella signora della Regione Trentino-Alto Adige, indagata per avere usato la legge 104 (benefici per l'assistenza in casa di anziani) al fine di poter trascorrere, con l'ignaro consenso dello Stato, allegre vacanze in esotiche località; e quante poche righe, sempre sulla stessa testata, si dedicassero a un blitz delle forze dell'ordine che ha assicurato alla Giustizia un pericoloso e latitante camorrista. Premesso che l'abitudine truffaldina e disonesta della signora è da perseguire secondo le leggi vigenti, trovo una notevole sperequazione nella maniera di dare rilievo alle due notizie.
E oggi leggo in un interessantissimo post quanto sia inquietante la presenza della Casaleggio nel M5s. Non voglio addentrarmi nella questione, non ne ho illuminanti conoscenze, solo molti dubbi e scarsissime certezze. Quello che mi colpisce è "l'inquietudine" che tale racconto riesce a provocare.
Ora, voglio dire: ma davvero sono queste le notizie inquietanti,  quindi, letteralmente, che dovrebbero e potrebbero toglierci la "quiete"? E allora il gas piovuto dal cielo su centinaia di inermi, a Douma in Siria? E il massacro che non si ferma, dei curdi, da parte di Erdogan? E il mai finito conflitto tra Israele e la Palestina, nella insanguinata striscia di Gaza? Non sono questi i fatti, continui, interminabili, che dovrebbero toglierci la serenità o quel che ne resta, o come cavolo la si vuole chiamare la nostra vita da occidentali smarriti e senza più discrimine? Perché è quello che abbiamo perduto, il discrimine, la capacità di discernere, di possedere criteri di giudizio, di dare peso e valore opportuni e congrui.
E non è colpa dei giornalisti, non è solo colpa dell'informazione (come suggerirebbero gli articoli citati sopra) il giornalismo, l'informazione - e mi riferisco a quella vera - fanno il loro mestiere, porgono al pubblico quello che il pubblico si aspetta, quello che vuole. Cavalcano le ondate, di volta in volta adeguandosi ai gusti-disgusti dell'opinione pubblica. Che si inquieta, si incazza della signora che fa le vacanze a sbafo e della Casaleggio o delle quadriglie e tarantelle dei politici. Ma non si inquieta del sangue e della morte lontani, non ci riguardano e, anche perché no? ci siamo abituati, a quelle guerre e a quelle morti.
In conclusione, rifletto.
Sì, provo inquietudine, la provo per me e per chi mi è caro, e per tutti. Perché siano noi ad averla assorbita l'inquietudine, siamo noi, con la nostra acquiescenza silenziosa e passiva e vagamente annoiata, a essere diventati inquietanti.


Mario Sironi  "L'idolo"  1955

Lettori fissi