domenica 19 marzo 2017

Oggi, no.

Potrei scrivere di mio padre, oggi si festeggia la paternità, ma non lo faccio. Non scriverò di lui perché c'è sempre una piccola parte di lui che mi segue, mi pedina instancabile. Il mio carattere, qualcosa almeno, la capacità di accettare la vita così come si presenta, anche con una risata e un guizzo d'ironia. Sì, non voglio parlarne perché so di parlargli spesso e mi piacerebbe averne un segno.
E poi cosa potrei dirgli di nuovo, di diverso? Forse non gli piacerebbe più la donna che sono oggi, più smaliziata, più disillusa, più delusa. Non gli piacerebbe la mia lucidità, lui mi voleva tenera e appassionata; non gli piacerebbe la mia capacità di analizzare con dolorosa consapevolezza le dinamiche e le tensioni accumulate, negli anni, nel nostro nucleo familiare. Lui che possedeva quella fierezza antica di patriarca, che ci voleva uniti come moschettieri del re di Francia; lui che non ammetteva le feste comandate, senza le rumorose riunioni conviviali e non voleva vedere volti annoiati e non voleva sentire discussioni.
Ma il fermentare di diversità, il ribollire del mosto nel tino c'era già allora. Forse fingeva di non sentirne l'aspro odore.
Credo che non ci sia niente di più sofferto per un padre che accorgersi delle sconfitte mani deluse di un figlio. Quando queste si alzano in un gesto di resa. E io mi sono arresa. Mi sono arresa al cambiamento, all'età che incartapecorisce pelle e cuore; mi sono arresa, docilmente dopo tanta amoroso trasporto, all'indifferente sorriso, al distratto ascolto, al gioco delle emozioni condivise, che si è sfilacciato, Mi sono, docilmente, arresa al distacco.
Non avrei voluto parlare di mio padre, ma credo di averlo fatto. Ancora lui, in realtà, ancora lui, vorrei che fosse il mio, il nostro baricentro.

Paul Cézanne "Il padre"  1866

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