martedì 17 settembre 2013

Voglio un garofano rosso.

Ieri sera mi sono imbattuta in un programma di qualità, extra anche. Imbattuta è un modo di dire, in realtà ho premuto quel tasto del telecomando perché era quello che volevo. Finalmente una televisione al servizio del pubblico, finalmente davvero, dopo mesi e mesi di schifezze ammannite a noi poveri fessi guardoni, come informazione che fa la differenza. Sì, la differenza tra spazzatura e spazzatura, una perfetta educazione alla raccolta dei rifiuti. Ieri no, ieri Riccardo Iacona a Presa Diretta ha dato una lezione di stile, di professionalità e di cultura politica e sociale (quella vera, quella che insegna qualcosa di concreto) come purtroppo raramente avviene in TV. Niente urla tra ospiti politici di mezza tacca o giornalisti compiacenti o con le vene fuori dal collo, anzi niente ospiti. Solo la gente, quelli come noi, sì noi comuni mortali, europei senza più l’idea di cosa sia l’Europa, greci, italiani, portoghesi, francesi per le strade del vecchio continente, come in un grande romanzo d’altri tempi, come in un film corale, persi tra la folla in coda agli uffici di collocamento (i moderni job center); stanchi e arrabbiati con la propria pancia vuota in coda alla Caritas o in qualunque altro luogo dove ci sia del cibo da avere; ancora arrabbiati nelle piazze, davanti alle fabbriche chiuse, davanti ai luoghi dove si pensa vengano decise le sorti di non una generazione, ma di due, tre generazioni. I vecchi pensionati accanto ai padri disperati senza lavoro, la ragazza appena laureata accanto alla donna delle pulizie che nessuno vuole più, l’architetto in fuga verso l’Africa, che forse è meglio dell’Europa dice, vicino all’operaio specializzato che ha perduto tutto. Volti che si susseguono e che mi procurano un vertiginoso malessere, una morsa allo stomaco di paura e di collera repressa, a me comodamente seduta sul divano di casa, ancora almeno. E penso, non sarà così per i miei figli, non sarà così per i nostri ragazzi greci, italiani, spagnoli, portoghesi, francesi. E già. Perché è dell’Europa del Sud che qui si sta parlando, un illustre, quanto da me sconosciuto, economista tedesco ci chiama così, europei del sud, e nelle cose che dice c’è del vero. In mezzo alle facce dei giovani e dei vecchi, ogni tanto si affaccia il viso più rilassato anche se contrito per via della serietà del tema, di qualche politologo, di qualche studioso di economia, tutti concordi nel suggerire una identica via d’uscita dal cul de sac dell’austerity imposta e imposta ai ceti più deboli.
Non mi dilungo oltre, mi piacerebbe che chi non lo avesse visto, andasse a dargli una sbirciata.
Solo, permettetemi, un ricordo personale. Tre anni fa sono andata in Portogallo, un viaggio da turista sulle tracce di Pessoa e Saramago. Lo spirito che mi animava era lungi dall’essere quello di chi voleva rendersi conto di quanti soldi avessero in tasca i portoghesi, avevo poesia e libri per la testa, ma fui ugualmente colpita dall’abbandono in cui versavano interi rioni di Lisbona e soprattutto di Porto. Per la prima volta mi accorgevo che per le vie centrali c’erano vecchi, ed erano portoghesi, che vivevano per strada, in mezzo a cartoni e sacchetti di plastica contenenti forse le memorie di un’altra vita. Ne fui stupita e addolorata, il mio viaggio assunse, di colpo, un significato diverso e, nel contempo, mi reputavo fortunata, da noi pensavo, è diverso.
Ieri guardavo i volti dei portoghesi, guardavo i cortei e ascoltavo le loro canzoni, quelle che cantavano quando ebbero la libertà dalla dittatura di Salazar nel 1974 e ascoltavo una donna della mia età che diceva, offrendo un garofano all’occhio della telecamera,  che è tempo di riprendere i garofani in mano.

Credo che quel tempo sia venuto  anche per noi. Non mi sento più fortunata, voglio anche io il mio garofano rosso.

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