Si torna sempre sul luogo del
proprio misfatto, così recita la vulgata della cronaca nera. E io sono tornata,
ancora una volta, sui luoghi del mio delitto, che è un romanzo rimasto, come altri, nello scaffale fisico della mia libreria e in quello immateriale
del mio cuore.
La storia è lineare, tutta in
verticale però. Molti anni or sono, per una casualità di cui non ho memoria, mi
ritrovai con alcuni amici in un borgo arroccato sui monti Iblei: Buscemi. Si
era in estate ed eravamo venuti su dal mare, probabilmente accaldati e stanchi,
con poca voglia di girare per le stradine sconnesse che scendevano e salivano,
costeggiando le case malmesse, in evidente stato di abbandono. Eppure, c’era un
silenzio profumato di erbe selvatiche, una quiete remota che mi turbarono.
Forse l’emozione fu dovuta all’improvvisa estraneità dall’esacerbante frenesia
della spiaggia e della folla chiassosa che vi si rotola, beatamente disinibita,
non lo so. Ma provavo un benessere accogliente, come un reduce che ritorna alla
pace del proprio nucleo d’affetti. Parecchi anni dopo, tornai di proposito e
decisa a conoscerlo meglio, quell’eremo silenzioso. E ne fui ancora più
incantata: era un giorno di novembre con tutti i requisiti di questo mese,
nebbiolina, pioggia sottile e intermittente, cielo cinerino, a tratti
squarciato da una sottile lama di sole. La chiesa barocca dominava la piccola piazza
con le sue volute in pietra color ocra chiara, le case all’intorno recavano i
segni di una vetusta e trascurata bellezza. Visitammo le case museo, case quasi
scavate nella pietra, dove avevano vissuto contadini e pastori, in dignitosa e
operosa povertà. Anche in quella domenica di novembre il silenzio del borgo mi afferrò, un giovane che si era prestato, gentilmente, a farci da guida, ci
disse che ormai gli abitanti erano non più di settecento. Il selciato a lastre scomposte, tra le pietre l’erba ingialliva sotto le sferzate delle prime
gelate, ci portava su e poi giù, e noi inerpicandoci verso l’alto e dopo slittando verso la valle,
ci guardavamo intorno senza fiatare.
Alcuni anni dopo trasposi l’immagine
di Buscemi nel mio libro, trasfigurandolo con la fantasia e divenne Geodoro.
Ci sono tornata ancora,
pochissimi giorni fa e non ho trovato più Buscemi, Geodoro è scomparso per
sempre. Al suo posto, i miei occhi stupefatti e tristi, hanno visto palazzi
dalle facciate dipinte d’un verde squillante o di un rosa maitresse; le antiche
case hanno perduto la dignità dei loro infissi scardinati, per acquisire la
volgarità degli inesorabili infissi in alluminio; la bella chiesa barocca c'è
sempre, almeno quella è intatta, ma dietro occhieggia, come un fungo maligno,
un caseggiato verdognolo. Il silenzio resiste, interrotto dal ronzare di qualche
veicolo; ma non profuma di erbe selvatiche, ha l’odore che si riversa da due o tre bar con le insegne
al neon blu viola e rosso, che
snocciolano le specialità in inglese, ovviamente. Come se ci trovassimo a Soho.
Ho deciso di scrivere al
Sindaco, mi sono procurata tutto l’occorrente. Voglio complimentarmi con lui
per avere distrutto una mia visionaria e delirante fantasia. Sì, gli dirò che
Buscemi – Geodoro non esiste più. Al suo posto resta, però, qualcosa: l’oro
(sono stata Cassandra?) degli infissi, dei portoni, dei cancelli, in alluminio
anodizzato, che si riverbererà, in eterno sulle vallate circostanti. Chapeau,
signor sindaco!
Gustave Courbet "Il disperato" autoritratto - 1844
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