martedì 15 dicembre 2015

Chapeau!

Si torna sempre sul luogo del proprio misfatto, così recita la vulgata della cronaca nera. E io sono tornata, ancora una volta, sui luoghi del mio delitto, che è un romanzo rimasto, come altri, nello scaffale fisico della mia libreria e in quello immateriale del mio cuore.
La storia è lineare, tutta in verticale però. Molti anni or sono, per una casualità di cui non ho memoria, mi ritrovai con alcuni amici in un borgo arroccato sui monti Iblei: Buscemi. Si era in estate ed eravamo venuti su dal mare, probabilmente accaldati e stanchi, con poca voglia di girare per le stradine sconnesse che scendevano e salivano, costeggiando le case malmesse, in evidente stato di abbandono. Eppure, c’era un silenzio profumato di erbe selvatiche, una quiete remota che mi turbarono. Forse l’emozione fu dovuta all’improvvisa estraneità dall’esacerbante frenesia della spiaggia e della folla chiassosa che vi si rotola, beatamente disinibita, non lo so. Ma provavo un benessere accogliente, come un reduce che ritorna alla pace del proprio nucleo d’affetti. Parecchi anni dopo, tornai di proposito e decisa a conoscerlo meglio, quell’eremo silenzioso. E ne fui ancora più incantata: era un giorno di novembre con tutti i requisiti di questo mese, nebbiolina, pioggia sottile e intermittente, cielo cinerino, a tratti squarciato da una sottile lama di sole. La chiesa barocca dominava la piccola piazza con le sue volute in pietra color ocra chiara, le case all’intorno recavano i segni di una vetusta e trascurata bellezza. Visitammo le case museo, case quasi scavate nella pietra, dove avevano vissuto contadini e pastori, in dignitosa e operosa povertà. Anche in quella domenica di novembre il silenzio del borgo mi afferrò, un giovane che si era prestato, gentilmente, a farci da guida, ci disse che ormai gli abitanti erano non più di settecento. Il selciato a lastre  scomposte, tra le pietre l’erba ingialliva sotto le sferzate delle prime gelate, ci portava su e poi giù, e noi inerpicandoci  verso l’alto e dopo slittando verso la valle, ci guardavamo intorno senza fiatare.
Alcuni anni dopo trasposi l’immagine di Buscemi nel mio libro, trasfigurandolo con la fantasia e divenne Geodoro.
Ci sono tornata ancora, pochissimi giorni fa e non ho trovato più Buscemi, Geodoro è scomparso per sempre. Al suo posto, i miei occhi stupefatti e tristi, hanno visto palazzi dalle facciate dipinte d’un verde squillante o di un rosa maitresse; le antiche case hanno perduto la dignità dei loro infissi scardinati, per acquisire la volgarità degli inesorabili infissi in alluminio; la bella chiesa barocca c'è sempre, almeno quella è intatta, ma dietro occhieggia, come un fungo maligno, un caseggiato verdognolo. Il silenzio resiste, interrotto dal ronzare di qualche veicolo; ma non profuma di erbe selvatiche, ha l’odore  che si riversa da due o tre bar con le insegne al neon  blu viola e rosso, che snocciolano le specialità in inglese, ovviamente. Come se ci trovassimo a Soho.

Ho deciso di scrivere al Sindaco, mi sono procurata tutto l’occorrente. Voglio complimentarmi con lui per avere distrutto una mia visionaria e delirante fantasia. Sì, gli dirò che Buscemi – Geodoro non esiste più. Al suo posto resta, però, qualcosa: l’oro (sono stata Cassandra?) degli infissi, dei portoni, dei cancelli, in alluminio anodizzato, che si riverbererà, in eterno sulle vallate circostanti. Chapeau, signor sindaco!

Gustave Courbet  "Il disperato" autoritratto  -  1844

Nessun commento:

Posta un commento

Lettori fissi