lunedì 21 marzo 2016

Il manovratore è sceso.

Voglio scendere! Si dice così, mi pare. Quando il viaggio si fa noioso, quando la compagnia si fa ressa assordante, quando il paesaggio si illividisce di foschie.
E viene proprio voglia di cambiare aria, di inerpicarsi per sentieri ariosi che portano a valli segregate agli altrui occhi, cinte da foreste fitte; o di scoprire un'isola proprio dove l'orizzonte allaccia il cielo con il mare e non sapere quale sia il mare e neanche il cielo, come Ulisse e come Robinson Crusoe e tutti gli altri dopo di loro, accecati dall'abbagliante voluttà della solitudine. I morsi degli affetti sono però laceranti, l'amore è sempre una robusta fune travestita da nastro di seta.
Rifletto su questo vociante, convulso mondo in cui mi agito anche io, burattino con invisibili fili, e mi appare distorto, come se nel grande caleidoscopio i pezzetti di vetro colorato fossero impazziti, perdendo l'eleganza del disegno originario. Vedo la folla di uomini e di donne ammassate ai limiti della vita, involontarie masse che spiano tra i buchi della rete e hanno i bambini al collo appesi come amorosi fardelli; vedo le città sgargianti di luci e mi sembrano vecchie puttane stanche; vedo i giovani nostri in fuga, occhi bagnati e rabbia e speranza nelle mani e nei piedi; vedo gli altri, quelli che non mi appartengono, quelli a cui non appartengo, ne ascolto le parole fredde come ghiaccio sulla schiena, ne vedo gli occhi bugiardi, le braccia protese ad afferrare tutto quello che sfiorano; vedo i vecchi fuori dagli ospizi, soli e sgomenti, poveri come sono i poveri che conservano la dignità di un tempo.
Vedo gli squali aggirarsi, giovani squali che spacciano il lusso per bellezza e forse non sanno che la bellezza rinnega il lusso. Vedo le immagini sguaiate dagli schermi che ci opprimono nelle stanze, un vecchio signore che si ostina a parlare al vento e il vento gli soffia ridendo in faccia; un altro, più giovane, che si ostina a ridere, e ride e ride perché non sa parlare; e il coro di tanti altri, il razzista che si finge uomo di cuore, la fascista che non si riconosce tale, l'onesta cittadina che però non sa dove guardare, se a destra o a manca e rischia di farsi travolgere. E il coro, il coro di noi tutti, pronti a cantare al tocco di bacchetta.
Allora mi fingo d'essere arrivata al capolinea, cerco il manovratore di questo lungo treno e gli dico che vorrei scendere. Ma il manovratore è sordomuto. O forse se n'è andato, anche lui.


G. De Chirico, “I piaceri del poeta”, Parigi, 1912

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