sabato 16 maggio 2015

Nella landa, gli steccati.

Non riesco ad assuefarmi al cinismo dilagante, non posso. Alcune volte vorrei esserlo anche io, cinica, per autoprotezione, per soffrire meno, per incazzarmi di meno. E, a volte, penso che siano anche questi i motivi per cui molte persone si mostrino così, come se fossero immerse in una tinozza colma di olio, per venirne fuori con la pelle e la coscienza scivolosa, niente e nessuno vi potrà trovare un appiglio. Mi forzo a comprendere, mi dico, sono stanchi, siamo tutti stanchi, vorremmo, solamente, la calma apparente dell'egoismo. Un ordinato spazio, esiguo, ma nostro, dove far crescere i semi posti sottoterra, i nostri semi. I nostri effimeri interessi, i nostri affetti, rivoltando con cura le zolle grasse, irrorando bene perché non appassiscano. La soluzione, apparentemente migliore, recintare il giardino con steccati resistenti ai venti improvvisi, e fuori lasciare che la gramigna cresca, che la terra diventi una landa sconfinata e selvaggia. E chi se ne frega.
Ma io non ci riesco, io ci devo infilare i piedi e le mani nella terra arida o nel fango nero, per rimestarlo e vedere se dentro, annidati, invisibili e derelitti, non vi siano dei semi da far fiorire.
Non ce la faccio a non tremare di fronte alle fragilità di questa nostra terra, di fronte alla solitudine che soffia e scuote, come folate repentine e violente di ciclone, queste fragilità.  E sono certa che chi mi legge, lotta come me per allontanare questi fantasmi molesti, queste bugiarde e attraenti sirene che ci allettano con la lusinga della quieta esistenza, reclusi nelle quiete stanze, con il mondo lasciato sulla soglia, fuori da noi, che non entri a contaminarci.
Le parole che sentiamo dagli altri ci colpiscono, sono pugni in faccia e possiamo imparare a schivarli, da abili pugili. Le parole di chi fa parte della nostra vita, di coloro che hanno camminato insieme a noi per un tratto di strada, sostenendosi a noi e noi aggrappandoci a loro, per non cadere, le parole, lame d'acciaio, scavano ferite.
Mi restano, come chiodi infissi, le parole che leggo, spesso, parole che gelano, senza sangue, nude parole, morte. Mi restano, come aghi nel cuore, le parole di chi mi è più vicino. Solidarietà, amore, compassione mi aspetto. E ascolto, muta, il cinismo del disprezzo, del disamore. Non so perché, non lo so. O forse, sì.
Forse è l'incapacità a tendere la mano, oltre lo steccato, una disabilità cercata che dà una paralisi astiosa, una rigidità pre-mortem. Sì, il cinismo, il disinteresse, l'assenza, sono i precursori della morte. Trombettieri e araldi strillanti, che le coscienze sono in coma.

  Pavel Tereshkovets  - White silence

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