mercoledì 3 giugno 2015

L'esperienza tace.

L'esperienza dovrebbe essere un oggetto fisico, un campanello, ad esempio, come quelli in uso, un tempo, negli alberghi. Un campanello da far trillare o strillare quando occorre, quando i recettori degli istinti sono all'erta. Quando ci si ritrova in una situazione che pare un déjà vu, con noi al centro di un gruppo di persone e siamo lì lì, per dire la nostra. Per sputare la nostra sentenza, unica e perfetta, sinteticamente acuta. E, più che altro, acuminata come un bisturi, pronta a fendere colpi bassi e alti. Ma l'esperienza non è un campanello da far trillare e così non avverte, spesso se ne sta nascosta in qualche andito oscuro della memoria, e forse sghignazza pure, godendosi lo spettacolo delle nostre azioni e delle nostre parole, nude, indifese, perché lei non ci soccorre.
E nudi come vermi, inermi come bambini, ma senza la loro innocenza, ci precipitiamo, a capofitto, nell'errore. E le frasi urlate dall'uomo forte, deciso, contagiano con la loro virulenza e dimentichiamo tutti gli altri uomini, forti e decisi, che l'hanno preceduto. Dimentichiamo il rozzo linguaggio della pancia che borbotta, dimentichiamo il fiele velenoso che instillano quelle parole e la gramigna che infetta tutte le altre buone piante. Dimentichiamo di essere liberi, dimentichiamo di avere ucciso il padre-padrone e di avere scelto di camminare da soli. Come nella favola, siamo agnelli, "superior stabat lupus" e, senza volerlo, ne diventiamo il nutrimento.
La memoria è sorella dell'esperienza, dovremmo averne più cura.


Il lupo e l'agnello  -   incisione di Gustave Doré

Nessun commento:

Posta un commento

Lettori fissi