sabato 5 settembre 2015

Le onde bussano.

Il bambino spiaggiato. Lo ha definito così, con dolente similitudine, un amico sul web. E questa parole sono ferite sanguinanti, perché gettano un fascio accecante di luce su tutti noi. Quanti di noi, in questi anni, si sono riempiti le viscere e la bocca di sdegno nel vedere le immagini di cetacei spiaggiati sulle nostre coste felici o altrove? Quanti di noi hanno aderito alle campagne delle associazioni animaliste per salvaguardare questi nobili esemplari della fauna marina dagli arpioni e dalle reti di banditi del mare? Tanti, tantissimi. Il coro delle grida di collera spingeva le navi di Greenpeace, imprimendogli la rotta. Ed era ed è un bene comune il mare, sono una riserva di tesori gli oceani e tali devono restare.
Alcuni giorni fa, su una spiaggia della Turchia, è affiorato nell'incessante moto ondoso, il corpo di un bambino.  Si chiamava Aylan e aveva tre anni. Non più un cucciolo di delfino o di balena, ma un cucciolo dell'uomo. Spiaggiato lì, nell'immensa solitudine del suo essere inerme, nella solitudine generata dall'indifferenza antica verso chi soffre.
La visione di quel piccolo corpo senza vita ha squassato il silenzio, ha provocato smarrimento e indignazione, ha costretto molti di noi a vedere, con i propri occhi, l'orrore. Perché la morte di un bambino è sempre un orrore, un atto immorale, un evento immorale.
Non voglio soffermarmi su coloro, parecchi, che hanno diffusamente scritto sulla necessità di pubblicare le immagini del bimbo. Lotte vane, discussioni fini a se stesse, pareri discordanti che nulla di sensato aggiungono al fatto, e nulla sottraggono alla tragedia. Anzi, tutto questo inutile chiacchiericcio sull"opportunità" di publicazione, non ha fatto altro che spostare l'obiettivo , il focus, quasi fosse più importante discettare di etica giornalistica, di scandaloso scoop. E intanto si perdeva di vista quel corpo, quel bambino. Io sono tra quelli che non hanno pubblicato la foto, ma umilmente non mi arrogo il diritto di giudicare chi lo ha fatto. E come molti altri, ho provato sgomento, rabbia, strazio; e soprattutto vergogna. Ho vergogna di essere qui, seduta a scriverne, protetta dagli affetti, coinvolta dai problemi quotidiani, a volte stanca e delusa. Le spiagge dove si infrangono i marosi, portando il loro carico di morte, sono lontane. Così parrebbe. Ma non è la realtà, so che quelle onde  bussano alla mia porta, alle nostre case e saremo costretti a sentirne lo scardinante fragore. Bisognerà dare loro quiete, bisognerà accoglierle. Bisognerà non abbandonare il bimbo spiaggiato a un'estrema, atroce solitudine.


Joaquín Sorolla (1863-1923) Ninos en la playa  1910

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