venerdì 13 ottobre 2017

Per avere un'attesa. Ancora.

Amarezza: proprio quel gusto che fa storcere la bocca e toglie ogni voglia di continuare a ingoiare il boccone. Così mi sento, preda di un'amarezza delusa, sconfortata.
L'amarezza di veder confermati dubbi e assilli. L'Italia è un Paese di vecchie, inveterate abitudini e non parlo della corruzione che, cavallo esuberante mai bolso, galoppa sempre per amichevoli e fiorenti praterie; non parlo delle operose consorterie, mafiose o no secondo la legge, che armeggiano indisturbate in saecula saeculorum et amen. Non parlo neanche dei politici perché non valgono lo spreco di una sola parola, sono le maschere dell'eterna commedia italica, una sorta di  guitti da pochade dove si entra e si esce di scena, sgangheratamente ridicoli.
L'amarezza ha radici salde, affondano nella vita di tutti i giorni e nella constatazione che la speranza, la bella e chiara Spes, che qualcosa cambi, si affievolisce in un rantolo triste.
I giovani, i nostri giovani, la nostra forza, il nostro futuro. Addomesticati e quieti, all'apparenza, vivono senza attese, senza la dolce banalità del sognare un futuri migliore. Si sono arresi all'evidenza: sono colpevoli di essere nati nel momento sbagliato. Oh! sì certo. La Grande Crisi, le scelte imposte dalle leggi perché non si sprofondi tutti, perché la nave non affondi. E pazienza se qualcuno dovrà annegare, bisogna correre il rischio. E così la nave va e gli annegati restano a galla. Peccato che siano proprio i nostri figli a galleggiare, muti e  quieti.
L'amarezza di non udire voci, grida perché qualcosa cambi. L'amarezza dell'accettazione.
E se no, c'è un altro sogno da inseguire, un sogno fragile e insignificante come la bolla di sapone che soffiano i più piccoli con la cannuccia. C'è l'esposizione di sé, il mostrarsi, il volere apparire, il volere essere, anche se per poche ore.  Essere che è apparire appunto. Eccoli qui, allora,  i ragazzi e le ragazze, più queste in verità, che sfilano in grottesche pose di attricette: eccole qui come se fossero sul maledetto red carpet da calpestare per un giorno, il pre-diciottesimo, un solo giorno che le vede protagoniste, dive, star assolutamente simili a migliaia di altre, fasullamente sfacciate, impacciate, ragazze poco più che bambine ammiccanti e goffe, come sempre è goffa la giovinezza. La mia amarezza, triste e divertita va ai genitori che, non è raro, s'indebitano pure per filmare e festeggiare le loro principesse senza trono.
Ma è una consuetudine ormai, mi si dice e io ne ho preso contezza solo da poco.
Ero rimasta stupidamente ancorata ad altre debuttanti, vaporose e romantiche, dei miei anni. E non facevano neanche allora per me quegli abiti di tulle e quelle pose di leggiadra verecondia,  erano inganni anche allora, era il maquillage discreto col quale si camuffava l'ingresso alla maturità.
Così in questo dualismo, in questa dicotomia senza scampo, si aggirano i miei pensieri e le mie svanite illusioni.
Da una parte ci sono i giovani quietamente assorti nei loro lavori, sovente precari e quasi sempre sottopagati. Dall'altra, una nuova generazione, figlia delle serate e dei pomeriggi domenicali trascorsi davanti alla tv, e adesso nel delirio dei social e del web, diciottenni, poco più poco meno, che hanno già affidato le loro esistenze alla mistificazione, all'irreale.
Ed è normale chiedermi, come faranno tanti, dov'è che si è sbagliato e quando e come. E le risposte le sappiamo tutti, oh! certo che le conosciamo, ma le teniamo nascoste, le teniamo sepolte, le cancelliamo assieme alle nostre sprecate giovinezze.
Amarezza. E non vorrei averne ancora e allora ragazzi gridate e ribellatevi, lasciate le vostre quiete esistenze addomesticate e urlatelo in faccia a moi il vostro scontento! Noi siamo qui e siamo pronti ad afferrarlo perché sarebbe l'ultima occasione per sognare anche noi, ancora un poco. Per allentare lo sconforto. Per avere un'attesa, ancora.

Edward Hopper  "Automat"  1927

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