lunedì 19 marzo 2018

Figli padri.

Partendo dalla festa di oggi e tornando alle origini. Alle mie origini che non penso siano così differenti da quelle di molti figli e figlie.
La retorica è il vulnus inferto, anche senza volontà di crimine, a tutti i festeggiamenti e a tutte le celebrazioni. A questa odierna nuoce particolarmente è pure ovvio. Ci stanno i sentimenti di mezzo, ci sta il cuore, ci stanno i nostri ricordi d'infanzia a fare da scudo alla festa. Un obbligo recepito come tale quindi, l'apologia della figura paterna. C'entra un po' di tutto nel crogiolo, il mito dell'Eroe greco, semidio e deus ex machina delle nostre prime apparizioni sulla scena del mondo; il Maestro messianico che ci proietta a una catarsi escatologica (tanto consolatoria e avulsa dalle responsabilità della Ragione); infine l'Educatore, quello che una volta era il ruolo tenuto dal precettore o, nei casi più socialmente fortunati, del Maestro di Corte. Il Padre dunque che ci rappresenta, rappresentando per noi ogni aspetto del vivere. E per molti è così e ne sono fervidamente convinti, felici loro. Acriticamente, senza giudicare, riconoscenti per sempre di essere quello che sono al padre.
La penso in maniera diversa, io.
C'è un'età per ogni scoperta, per ogni passaggio. E la mano nella mano del padre è quella del bambino che è incerto nei passi e ha bisogno del sostegno; poi la mano si stacca perché i passi si fanno più sicuri e perché ci sono luoghi tutti da scoprire e sono misteriosamente attraenti, meravigliosamente attraenti ed esigono la solitudine e un nuovo impegno. Altre cure attendono quel bambino e già non lo è più.
Le mani si ritraggono e i pensieri e le idee volano da un'altra parte, e crescono, si rinnovano di nuova vita e linfa e bellezza. E allora si guarda indietro a quella mano paterna, si guarda con amorevole distacco e si cammina ancora avanti.

Questo è, a mio avviso, l'amore che si può dare al padre, quando ci si è fatti uomini e donne, quando ci si appresta a diventare noi, padri e madri. L'amore critico, l'amore che raccoglie dubbi e incertezze e fragilità e li mette sull'ipotetica bilancia della nostra coscienza razionale e osserva, spesso, che i piatti non sono in equilibrio, si accorge con dolente e fredda lucidità che ci sono stati abissi di sconfortante incomprensione e cadute rovinose dal piedistallo e l'eroe, il maestro, il precettore non c'erano, erano un miraggio dei nostri occhi di bambini abbagliati dall'amore e dalla necessità. Al loro posto però c'è un uomo, un uomo che ha le nostre stesse qualità, le nostre stesse peculiarità, nei vizi come nelle virtù. E, a volte, pur non ammettendolo perché è una pena antica e pesante, troppo pesante (ed è una colpa nei nostri confronti, non ammetterlo!) scorgiamo un uomo peggiore di noi. A questo punto ecco, accade il miracolo, la bellezza di essere figli: quell'uomo, lo si accoglie con tenerezza E spesso lo si ama e molto. Nonostante non sia il padre che avremmo voluto per noi, nonostante la consapevolezza di essere noi migliori, lo amiamo. Diventiamo, in qualche arcana, indecifrabile maniera, noi i padri.

Guido Reni  "Giuseppe con Gesù"  1635

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