Per anni ho creduto che il
concetto di bellezza non potesse essere univoco. Ho creduto che anche davanti
alla suprema perfezione di un’opera d’arte c’era chi potesse restare
insensibile, percependone, sì, l’ideale
estetico, senza però provare
contaminazione alcuna, senza commozione. Per anni ho creduto che la bellezza
fosse davvero un quid magico, una scintilla interiore che un oggetto o un
volto, seppure imperfetti secondo i canoni
accreditati da secoli di educazione artistica, possedevano; una dinamica che
scaturiva dal “dentro,” dall’interiorità
celata da tratti non perfetti. La
grazia, mi dicevo, è ciò che si intende come grazia, mi dicevo. Per anni dunque
ho creduto che bellezza fosse la forma che lasciava trapelare l’essere. Come
dire, banalmente, che gli occhi sono lo specchio dell’anima. Ora mi rendo conto
che non è così, in questi tempi di oggetti-corpi-volti consumati come caramelline
da succhiare per ingannare l’ora che non scorre o che corre via troppo in
fretta. Non è più concessa l’immaginazione, la fascinazione della scoperta. Il
disvelamento dei sublimi abissi nascosti dentro, la ricerca dell’emozione profonda
nel tuffarsi senza salvagente negli occhi altrui per catturarne la segreta armonia.
Quella, l’unica, che può ancora salvarci. Ora so che non è così, ho creduto
fosse possibile, ma no non è così. Più pedestremente ci si accontenta. Ci si
accontenta di una sfacciata volgarità che sembra bellezza; ci si accontenta di
essere anche noi come ciò che consideriamo gradevole e desiderabile, e diventiamo, senza acorgercene, “brutti” e ciechi dentro. Forse perché ci è
insopportabile scorgerla la vera bellezza, forse perché riflettendoci in essa,
ne saremmo sopraffatti. Potremmo morirne.
Prassitele - Hermes
Nessun commento:
Posta un commento