sabato 22 marzo 2014

La bellezza non è più dentro.

Per anni ho creduto che il concetto di bellezza non potesse essere univoco. Ho creduto che anche davanti alla suprema perfezione di un’opera d’arte c’era chi potesse restare insensibile, percependone, sì,  l’ideale estetico, senza  però provare contaminazione alcuna, senza commozione. Per anni ho creduto che la bellezza fosse davvero un quid magico, una scintilla interiore che un oggetto o un volto,   seppure imperfetti secondo i canoni accreditati da secoli di educazione artistica, possedevano; una dinamica che scaturiva dal “dentro,”  dall’interiorità celata da tratti non perfetti.  La grazia, mi dicevo, è ciò che si intende come grazia, mi dicevo. Per anni dunque ho creduto che bellezza fosse la forma che lasciava trapelare l’essere. Come dire, banalmente, che gli occhi sono lo specchio dell’anima. Ora mi rendo conto che non è così, in questi tempi di oggetti-corpi-volti consumati come caramelline da succhiare per ingannare l’ora che non scorre o che corre via troppo in fretta. Non è più concessa l’immaginazione, la fascinazione della scoperta. Il disvelamento dei sublimi abissi nascosti dentro, la ricerca dell’emozione profonda nel tuffarsi senza salvagente negli occhi altrui per catturarne la segreta armonia. Quella, l’unica, che può ancora salvarci. Ora so che non è così, ho creduto fosse possibile, ma no non è così. Più pedestremente ci si accontenta. Ci si accontenta di una sfacciata volgarità che sembra bellezza; ci si accontenta di essere anche noi come ciò che consideriamo gradevole e desiderabile,  e diventiamo, senza acorgercene, “brutti”  e ciechi dentro. Forse perché ci è insopportabile scorgerla la vera  bellezza, forse perché riflettendoci in essa, ne saremmo sopraffatti. Potremmo morirne.


Prassitele - Hermes


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