venerdì 30 dicembre 2016

Il gran passaggio.

Domani si chiude, domani notte apre la porta a tutti noi un nuovo anno. Come sempre, come il calendario gregoriano vuole. Una faccenda vecchia,  quasi un disbrigo burocratico  verso il quale ci affanniamo tenendo il calice alzato. La ripetizione di un appuntamento, sempre uguale, sempre quello, tra i ritmi caraibici e i valzer viennesi sparati dalle tv accese nelle case; e nelle piazze i concerti e i concertoni e per le strade con le luminarie negli occhi della folla ammassata e brilla e i bicchieri di plastica rigida che rotolano sulla pietra e le bottiglie vuote, allineate lungo i muri, come in un desolato bar di quelli che Hopper preferiva; e tra i botti che schizzano nella notte i loro colori sintetici e squassano i timpani che pare di essere laggiù e invece non c'è la guerra qui.
E tutti a guardare verso il cielo, perché è da lassù che, inspiegabilmente, ci aspettiamo che arriverà l'anno nuovo, quello diverso, quello buono. Ogni trentuno di dicembre lo aspettiamo e ognuno manda i suoi voti, esprime un desiderio, caccia via un dolore. Per qualche ora vogliamo credere che qualcosa cambi, in meglio e non sappiamo, spesso, neanche cosa potrebbe essere il meglio. Ci affidiamo alla nostra allegria, un poco alcolica, ci affidiamo al buio percorso dai razzi illuminanti, come fossimo naufraghi su un relitto.
Il rito si compierà dunque, manca poco: solo il tempo di aggrapparsi all'enorme lancetta che scandirà i minuti e voleremo, faremo, ancora una volta, il gran passaggio. Buon anno, allora, com'è corretto dire.

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