sabato 5 ottobre 2013

Gli oggetti sono le loro parole.

Quando accadono fatti come quello di Lampedusa, le parole restano morte, non hanno vita. Qualunque commento risulta ovvio e inutile, l'orrore, la vergogna, l'indignazione restano segni meri sul bianco. Dovrebbero diventare altro, dovrebbero diventare segni indelebili nei nostri cervelli, cicatrici e ustioni nei nostri cuori. Invece si proclama un giorno di lutto nazionale, si dà voce a qualche politico "sconvolto e addolorato" e si aspetta la prossima tragedia del mare. Perché ne verranno altre, se l'atteggiamento etico, oltre che legislativo, non cambierà. Il web si è riempito di messaggi, tweet, commenti di dolore, rabbia, vergogna appunto; ma ha avuto anche il suo carico di cinismo, indifferenza, crudeltà, da parte dei soliti con la coscienza a brandelli, gli unici veri straccioni che abitano sotto il nostro cielo.
Quello che è stato un pugno in faccia per me, è non solo l'ammassarsi dei corpi anonimi nell'hangar dell' aeroporto, l'uno accanto all'altro coperti dai teloni, come oggetti di scarto;  il pugno in faccia più forte è stato quel galleggiare tra le onde di zaini, scarpe, coperte, il galleggiare di tutti quei "poveri stracci" come li ha definiti un cronista. Quei poveri stracci che erano la vita per quei morti.
Gli oggetti diventati parole, erano loro a raccontare da quelle bocche chiuse per sempre.
E continuavo a guardare quel mare, il mare della mia terra, le sue onde placide o furiose, il suo colore autunnale e non lo riconoscevo, mi appariva estraneo, nemico. Il mio mare mi sembra, oggi, un carnefice.


William Turner   Il naufragio  1805

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