Dal finestrino dell’aereo Adele si sforzava
di scorgere tra le nuvole su cui viaggiava la sagoma dell’isola.
All’improvviso, i fiocchi di ovatta bianca si lacerarono e si dispersero
rapidi nell’azzurro, sbrindellati come
stracci. Adele aguzzava la vista, schiacciando la fronte contro il vetro e ne ebbe una visione fugace prima che altre
nuvole grigiastre gliela nascondessero. Si lasciò andare contro lo schienale a
occhi chiusi, cercando di controllare i battiti del cuore che voleva saltarle
fuori dal petto. Paura di volare. Il titolo di un libro di un’autrice americana
degli anni settanta che aveva suscitato scalpore e che lei aveva letto di
nascosto, sottraendolo dalla libreria della madre. Anche Adele aveva sempre
avuto paura di volare, ma non per l’essere sospesa in aria dentro un’enorme
scatola metallica. Ma proprio per la scatola metallica che le toglieva il
respiro. No, la sua non era paura di volare e precipitare. Al contrario, era
paura di restare chiusa come una
sardina in scatola, in eterno. Irrazionale come tutte le fobie, ma altrettanto
spaventosa. Spinse la nuca con forza contro lo schienale e controllò il ritmo
della respirazione. ‘Inspira con il naso, espira con la bocca. Uno due, uno
due, uno due. Durerà ancora per poco, poi come ogni volta, mi abituerò. E nel
frattempo, la hostess dirà che stiamo scendendo verso la pista e sarò con Michelangelo. E dopo, ancora, me la
caverò in qualche modo.’ Si rigirò verso
l’oblò. Come odiava quel piccolo occhio cieco: sotto c’era l’inesorabile bianco accecante.
Chiuse gli occhi, le orecchie e
il cervello e si lasciò cullare dal panico.
Tratto da "L'assente"
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