Ora potrei dire che ho riflettuto, che ho rovistato
dentro la mia carne, affondando nel sangue che scorreva feroce e vivo nella
penombra della lampada, con le scale agitate da fantasmagorie dietro i vetri
della finestra affacciata sulla strada abbandonata dai passi di uomini e donne con i
cani al guinzaglio, per l’ultimo giro d’aria. Ora potrei parlare di quello che
abbiamo vissuto, ma mi è ancora dolcemente doloroso, mi pare di sfiorare un
ematoma pulsante verso cui tende, irrefrenabile, la mano. Non voglio stilare un
diario, leggo che ne sono in procinto di edizione o almeno in speme, decine o
chissà centinaia di scritti, pensieri e vite di forzata clausura. Ciascuno
di noi, e siamo milioni, custodisce percezioni, sentimenti, che siano simili o
no poco importa. Non ho curiosità particolari su questo. Quello che mi
sollecita è il binomio, involontario, solitudine o isolamento - cambiamento.
Dunque si sbandierava, assieme ai tricolori alle
finestre e ai balconi, il cambiamento. S’aggirava per la penisola uno spettro,
ma era uno spettro che non incuteva timore, anzi: andavamo in brodo di
giuggiole perché ci piaceva, perché no, essere migliori. O credere con una
seria certezza di poterlo diventare. E quindi le piazze, sconfinati deserti e
bellissime, delle nostre città, la gioiosa consapevolezza di contribuire al loro
respiro; la commozione per i medici e i sanitari, l’emozione drammatica di Papa
Francesco sperduto davanti al colonnato di S. Pietro. I cori, i canti, i musicisti, gli artisti,
tutti a chiedere con affettuosa premura di restare a casa. Buoni, a casa. E lo
siamo stati.
Per un po’. Poi tutto è scemato, le mani hanno
smesso di applaudire perché i morti non diminuivano, le bandiere sono state
arrotolate, i cori si sono zittiti, gli artisti e tutti gli altri hanno
cominciato a mostrare una ciclica prevedibilità e tutto è piombato nel
silenzio, quello effettivo della solitudine.
Ci siamo messi, come la mia colombaccia sul ficus,
a covare. Rabbia e frustrazioni, rancori, paure, attese disattese sono esplosi
sui social - pleonastico dire che questi
sono ormai il termoscanner dello stato morale, politico, economico, sociale di
una nazione - e ne hanno fatto le spese
alcune persone che, per un motivo o per un altro, hanno surriscaldato la
minestra scotta ma sempre avvelenata della ciancia nostrana e la ripresa gloriosa della nostrana fatwa non
si è fatta attendere, a chi tocca tocca. Fine della bontà, fine del mondial festival
della fratellanza.
Quindi, se ne dovrebbe dedurre che l’isolamento ci
ha danneggiati, spiritualmente oltreché
materialmente.
Parrebbe di sì, di primo acchito. Sicuramente ci ha
impoveriti economicamente e sarà durissima sfangarla la vita, ma non per tutti.
Questo è il primo madornale abbaglio che ci ha accecati: la crisi non è per
nulla democratica, mieterà le sue
vittime tra i più fragili, falcidierà i deboli, proprio come ha fatto il virus.
E come ancora lo fa, dall’altra parte del globo. E nulla, o poco, si sa dell’Africa. Quelli che
rabbrividiscono per gli sbarchi, potrebbero tirare un sospiro di sollievo. Sì,
lo so, sono cattiva, mi adeguo.
Parrebbe dunque che la solitudine - oltre le torte
e i dolci fatti in casa, che bello! E i libri, quanti ne abbiamo letti e la
musica e i film riscoperti, ah! I vecchi film (io per prima eh) - ci abbia resi
perversi, rabbiosi, pronti a sferrare l’attacco al primo disgraziato che
capitasse sotto tiro. No, non è così, non lo credo. Perché la solitudine è
straziante per la mancanza e fa piangere la sera, quando anche il soffio di
vento dietro i vetri della finestra cessa e tutto diventa un cielo senza voci e
le voci delle persone assenti ti rimbalzano nella testa e nel petto e vorresti
afferrarle e quando i volti lontani si affacciano dall’etere tecnologico c’è il
sobbalzo del cuore e resti a spiare ossessivamente quei tratti, i movimenti, li
riconosci, li riapprendi, li leggi. Senza toccare, immobilizzi le mani che sono rami inutili. La solitudine
è chiudere il cervello all’oggi e fingersi nel futuro e immaginare, tutto
quello che manca, tutti gli assenti. La solitudine è costruire il domani, con
pazienza. La solitudine è fatica, un avvolgersi
in sé, una coperta da tessere per proteggersi. Aspettando. Mi piace pensare che diventi un
lavoro, un’occupazione nella quale impegnare quella parte di noi che, nel
trambusto del fuori, del gomito a gomito, della pacca tra colleghi, è sempre
negletta, oscurata. Uno sbilenco, schiacciato io a cui non rispondiamo perché
non abbiamo tempo.
La solitudine-isolamento no, non ci ha cambiati,
non tutti, forse anche pochi. E quei pochi sono quelli che, in qualche modo, l’hanno
riconosciuta perché, in un altro tempo, in altre occasioni, gli è stata
familiare.
Ora siamo liberi, da qualche settimana, ci siamo
tolti le catene e ci ritroviamo nella palude di Lerna con l’Idra ancora
pericolosamente vivo e con i nostri bisogni e paure e contorcimenti e lividi e
pugni serrati ( e quanto crudele sostegno dà a questo nostro inquieto spaurito
vivere, l’informazione, "il vaccino salvifico ci sarà a breve, no, tra molto,
anzi mai, no ci sarà a breve ma non per tutti" gli esclusi quelli non mancano
mai) . Come prima, peggio di prima.
L’incantesimo della Bella Addormentata è finito, sono stati cento anni questi
due mesi, per la nostra cattiva coscienza. Mettiamola in libertà e non diamo la
colpa all’isolamento, almeno non questo, non quest’ennesima ipocrisia. Siamo
così e non vogliamo cambiare. L’altro è un’idea da cui prendere le distanze. E ora
che ci è permesso di tornare fuori dalle nostre stanze, fisiche e ideali stanze,
rientriamo con scalpitante bramosia tra la folla. Ritorniamo a essere massa,
delusa e incollerita perché ulteriori incertezze, ulteriori inganni, ulteriori
trappole stanno dietro l’angolo.
La solitudine era il ricovero temporaneo alle
nostre afflizioni, l’oblio di noi stessi: eravamo altri, potevamo essere altro.
Oggi sciamando per le vie, insofferenti alle mascherine umide di sudori già
estivi, sgattaiolando bruschi di fronte a chi ci viene incontro -lo sconosciuto
temuto, la minaccia incombente - entrando sospettosi nelle botteghe riaperte a
fatica, li lasciamo lì, gli altri noi, quelli che siamo stati in tutte quelle
ore sospese in una surreale quotidianità.
Li confiniamo nelle stanze d’ombre e parole e pensieri, come ologrammi
di noi.
Edward Hopper "Early Sunday Morning" 1930